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Era una sera d’autunno e una cima
si lamentava tra’i nembi e le fonti,
e gemea ghiaccio - e tuttor si sublima -
e nevi e grandini; e d’in sopra i monti
vestìa la Notte del verno la prima
aurora, e ‘l freddo acquitrino de’i ponti
scorrea alle rocce - sembianze di lima -
e abbeveravane e i cervi e i bisonti,
e in sulle liriche e l’urla de’i boschi,
e in sulle valli e le felci e i licheni
si ottenebravano - e sempre più foschi -
i rivi alpestri, eterni ghiacci e ameni -
e ‘l manto brùn d’una vetta - s’attoschi! -
negra giacea e ripudiava le speni.
Le Notti fûr veleni,
e un mar di neve gridava all’Ispagna
de’i Pirenei la terribile lagna.
Un dì fuggiva in su’i monti un torero,
non vinse un toro nell’aspra corrida,
e n’andò esule, e una cima infìda
gli palesava ‘l perenne sentiero.
Piangea l’onore, e sonò una chitarra,
e un nom di donna pe’i calli gemeva,
ed ei fu un prode d’infame Navarra,
e ‘l disonor coll’esilio tergeva.
Vestìa di pelli, e un mantello avea nero,
e un fior mirava - ove ancora s’annida
un gufo antico - e qual baldo guerriero
sembrò gridargli: «Ch’io tosto t’uccida!».
Un dì fuggiva in su’i monti un torero,
non vinse un toro nell’aspra corrida,
e a lei che disse: «Ch’io, oh cor, vi conquida!»
lasciò un’impronta di mesto mistero;
e cantò lo sparviero
la nenia atroce a un dissepolto tiglio,
Divo de’i calli, e rostro di periglio.
Le cime aguzze - ondeggiar di foreste -
or s’annebbiavano in torvi elementi,
e le bufere e le nivee tempeste
presto n’alzavano i spiri de’i venti,
e le montagne parevan le creste
d’immoto Ocèäno in preda ai furenti
geli del Baltico; e l’orride e meste
piangean i ghiacci le spente sorgenti,
e la possente ed adorabile sierra
funestò in nebbie i più bassi vigneti,
ed una brezza in fin da Gibilterra
rasserenava i calli e i fiumi inquieti;
e accennò ‘l vento una marcia di guerra
che raggelò le roveri e i pineti...
e fûr sapor d’aceti
le nivee piogge che scesero a frotte,
Ebe del verno, ed un inno alla Notte.
N’andava ‘l misero e urlò una canzone
che singhiozzava in su’i nuovi dolori,
e malediva le stalle e gli onori,
privo di spene, e pover di passione;
e rimembrava l’invitto e reo toro
e l’orbe vie e ancor le contrade basche,
e in sul tramonto del Sol fatto d’oro
s’incamminava in tra’i salci e le frasche.
Presso d’un valico e d’una magione
vide una schiera ricolma d’allori,
e ‘l capitano: «Venite in tenzone!»
gli sclamò prode: «Pugnam gli invasori!».
N’andava ‘l misero e urlò una canzone
che singhiozzava in su’i nuovi dolori,
ed accettava del campo i furori
presso de’i calli l’ingrata regione;
e pugnò Napoleone,
e spirò in pugna qual fier partigiano,
privo di Vita e in su’ un suolo lontano.
Le nubi in ciel s’oscuravano, e i baschi
sassi di neve crollavan disotto,
riverberò la Luna in sopra i paschi,
e della valle ‘l fior del bergamotto,
e presso un culmine e i picchi sì maschi
un bue pascevasi e n’andava a trotto,
e una capanna giacea e in fianco i fiaschi
d’un vino putrido, e fu un vetro rotto;
e ai piè de’i monti vi fûr gli ermi ispani,
ed eran alvei d’un mare nebbioso,
e l’orizzonte esterrefatto e i vani
fior s’acquietavano, e ‘l ciel burrascoso
offriva all’eco ‘l lamento de’i cani,
e delle stelle ‘l fulgor tenebroso...
E un uomo stava ascoso
nel tempestar della neve crudele,
assiderata impronta d’orbo fiele.
Andò ‘l torero al certame, e pugnava
qual granatier tra’i furiosi Ispagnuoli,
e un inno al Trionfo, e i bicchier de’i rosoli
eran i pegni ch’ei in guerra mertava.
Pugnò in su’i calli, e in tra’i rivi e i torrenti,
e pur temuto pareva ‘l suo nome,
e pelle nevi, e in tra gli aspri elementi
or gli ondeggiavano ancora le chiome.
Un dì la pugna confusa infuriava,
e i granatier si trovarono soli,
e de’i rival un cannone iscoppiava
contro di loro. Che ‘l sangue ne coli!
Andò ‘l torero al certame, e pugnava
qual granatier tra’i furiosi Ispagnuoli,
ed or ferito morìa e gli usignuoli
mesti piangevan per lui che spirava;
e l’onor lo dannava,
e nelle fauci di bieca Natura
ebbe ricetto in una sepoltura.
Le vette e i valichi e i culmini e i secchi
cardi sen stavano immersi ne’i geli,
e pe’i sentier correvan gli stambecchi
e le marmotte, e sfiorivano i meli,
e in su’i perenni ghiacci gli aspri becchi
de’i falchi osceni ferivano i cieli,
e l’empie nevi divènner gli specchi
degli albi nuvoli in pallidi veli,
e vêr le valli e querce, e pioppi e salci
e i bei castagni, e i pini e i cespi ignudi
donavan ombre di tremule falci
ai sentier tristi, e terribili e crudi,
e rattristavansi ancor perfin l’alci,
e i nembi in ciel s’ottenebravan rudi.
Membranza, tu m’illudi!
Presso una fronda, nido di colomba,
v’era d’un miser l’incognita tomba.
Morì a un son che rimbomba,
e fu un torero dolente d’Amore,
e la sua dama nol seppe. Oh dolore!
E crudel fu l’onore!
Ascolta, oh vetta, nivea e sconsolata:
del tuo rigore quest’è la Ballata! |
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