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Una secchezza immutabile si raccoglie nella strada,
un rito semplice di setticemie svolazzanti, di coleotteri
gaudiosi, di fogli che urlano notizie marcite prima
di essere urlate. I residui dal vivo immancabilmente
ci superano.
Confluenze autunnali cedute per un soffio
agli accidenti del viale. E transenne
che richiamano attenzione al piede: che avrebbero fatto
se le foglie fossero state anime pesanti?
Una foglia
è una cassa toracica con alveoli a sbalzo,
pannelli solari, collettori pluviali, e tutta l’acqua e la luce
si uniscono in piccole sfere energetiche.
Eppure,
senza capire la gravità o il congegno di atterraggio,
la foglia torna al pianeta il volume occupato
e muta lo spazio.
Hanno posto una barriera in quel punto: il destino
accomuna i passi al volo senza improvvisare.
Il destino ha una timbrica di nacchere, di Vida breve,
poi svolazza come organza irrimediabile di sposa,
ma è sempre nacchere, nacchere rapidissime.
Un suono troppo veloce per ascoltarlo in anticipo.
La foglia cade perché il vecchio deve lasciare. E il vecchio
cade perché come d’abitudine bisogna farsi da parte. Si poggia
il berretto per la cervicale, il costume pesante delle ossa
va in un armadio e poi si cade. Nella caduta
c’è un momento finale in cui tiriamo a noi la terra
come il fazzoletto di un mago.
Diventiamo scomparsi per restare universali,
ma non muta lo spazio se non lasciamo il luogo.
Qualcuno, qualcosa ci accade:
fiori, insetti, o grezzo minerale
in una geologia sommersa da scarpe e stivali.
Dobbiamo passare la mano ad occhi chiusi,
per fermare quel suono.
Fidarci del mago che ci fa attraversare la volta
e starcene nudi nel tempio stellato.
Tuttavia, la mano
della tramontana mescola le carte per liberare
lo spazio nel viale - non solo quel viale,
non solo questo spazio: per qualcuno è un viatico.
La foglia cade perché il vecchio deve lasciare.
Oooooh, si tenevano i piccioli al legno elevato,
si tengono i vecchi al legno delle assi.
Ci teniamo ad ogni cosa ben piantata
quando la quotidianità è il filo di lana. |
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