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Il mio è un esilio stanco.
Per questo
scrivo delle poesiole scialbe e fiacche,
banali,
senza vita e senza effetto.
Per questo mi concentro sulle inezie
e non guardo al di là di questi vetri,
oltre la finestra,
dove lo sfacelo ormai tracima
e il degrado incontenibile dilaga.
Scelgo il confino, scelgo la prigione
e fra questi quattro muri
m'ingarbuglio con inutili pensieri
di mediocre o scadente levatura.
Tento così
di evitare rabbie e scongiurar furori,
provo ad allontanar da me
sdegni impotenti e inette irritazioni,
voglio schivare voli,
sottrarmi alle speranze,
eludere illusioni inefficaci,
dimenticare vertigini ed abbagli.
È un mondo ormai spossato questo
dove non c'è rimedio e scampo
dove non c'è speranza di salvezza.
Per questo mi accontento nel privato
di piluccare piccole emozioni
seccate fra le pagine dei libri.
E con cautela
tengo a bada le suggestioni vane
infilate fra i ricordi inariditi
e sorveglio con circospezione
le mie reminiscenze incerte.
L'aria pesante non consente fughe,
non ci sono rimedi o terapie.
Per questo
risparmio il fiato,
parlo sottovoce,
uso parole futili e leggere,
minuscole parole senza senso,
schivando le parole antiche
d'ampio respiro, grevi, impegnative,
come,
che so,
dovere o dignità,
partecipazione, empatia, coraggio,
etica e amore,
solidarietà e giustizia,
indignazione o tenerezza.
Se riesumate, possono fare male,
queste espressioni forti,
questi termini sicuri, elementari
che si son persi fra le muffe
dei vecchi dizionari.
Questi concetti consumati e tristi,
se rievocati,
possono scatenare ilarità,
o anche sconcerto,
perplessità, squilibri,
affanni e pene,
incertezze,
paura e smarrimento.
Io sopravvivo stanco,
sfiancato dall'esilio
e me ne sto in disparte
fra questi inutili pensieri,
coltivo poche pallide emozioni,
ubriaco di parole futili e leggere,
e con questi deboli livori
scrivo livide e scialbe poesie. |
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