Nel ronzio silenzioso della macchina, i suoi occhi tornarono di nuovo ad osservare le immagini ovattate dei ricordi che scorrevano veloci e scolorite. Si vedeva bambino, immobile sul selciato mentre un cielo gonfio d’ inverno, lasciava cadere i primi fiocchi nell’ aria silenziosa e fredda, le falde scendevano distrattamente sonnacchiose, depositandosi senza alcun rumore sul contorno di ogni cosa ed addormentandosi ingenuamente in un bianco sonno avvolgente
Come era quella vecchia filastrocca? “ Pigre le falde, nell’ aer sonnolento, cullate da un soffio, di pallido vento, distratte, ridenti, gareggiano liete, d’ incanto dipingon, la candida quiete. Al fin, poi, s’ adagian, sul bianco terreno, cadendo sopite, in un sonno sereno.”
Gli occhi andarono sognanti alla grande betulla, e la scoprirono vestita da sposa, la neve ammucchiata all’ attaccatura dei rami sembrava un grosso collo d’ ermellino e le migliaia di dita sottili, erano coperte di diamanti di ghiaccio. Pensò che doveva subito correre a presentarle uno sposo adeguato; e si tuffò nella neve fresca, intorno, ora, era un turbinio di fiocchi e le mani s’ infilavano veloci nel cuscino bianco, inzuppandosi fino ai gomiti, faceva freddo, ma non poteva fermarsi, così continuò il suo lavoro, tremando e tirando su col naso, fumando dalla bocca e dal cappello, fin quando lo sposo fu pronto; grassottello, simpatico con quel cappello di lattuga ed il sorriso di bottoni, allegro, in quel suo testone avvolto da una sciarpa di lanetta scozzese, che oltre a “ scaldarlo” gli teneva unite quelle due vecchie scope di saggina che fungevano da braccia. Pensò che tutto era pronto, i due sposi sarebbero stati felici, così, con passo sognante si allontanò lasciandoli in consegna al suono lontano delle campane che annunciava l’ imbrunire. Ed appena il corpo pesante della notte si adagiò stancamente sul bianco lenzuolo, le nubi si ritirarono come un vecchio sipario, lasciando intravedere un falcetto di luna, che brillava come il beffardo sorriso dello Stragatto, ed allora la grande betulla ed il pupazzo di neve cominciarono un valzer silenzioso, fatto di ombre e di sguardi, e danzarono, danzarono, leggeri, tra polvere di stelle e zucchero filato, tra foglie d’ agrifoglio e ricci di castagne, tra schizzi di pennelli e ciglia addormentate.
L’ indomani mattina un dispettoso raggio di sole s’ infilò faticosamente tra le fessure della persiana ed andò a bussare sugli occhi del bambino, annunciandogli che fuori c’ era un magnifico cielo blu, la giornata era talmente tiepida e tersa che sembrava appena uscita dalla lavatrice. Il bambino si vestì di corsa: maglione, pantaloni, calzettoni, scarponi, e giacca ed in un attimo i piedi erano sull’ erba.
Si, sull’ erba, dove prima tutto era bianco, il sole aveva ridipinto di verde e la neve non c’ era più, corse, corse fino in fondo al prato e la grande betulla era di nuovo lì, come ieri, muovendosi leggermente nel vento che accarezzava la sua corteccia liscia e priva di alcun ornamento, si voltò, lentamente, e tra due piccoli bucaneve riconobbe un cappello di lattuga ed un sorriso di bottoni, raccolse la sciarpa zuppa di pianto mattutino, raccolse le scope di saggina, se le caricò in spalla, e capì, capì che i sogni dei bambini durano una notte sola, capì che i sogni dei bambini durano fino all’ alba, capì che i sogni dei bambini durano finchè non arriva l’ età adulta. Ed allora si promise, che lui non avrebbe mai smesso di sognare, mai, ed anzi, attraverso i suoi occhi avrebbe aiutato a sognare anche gli altri. Sarebbe stato come il cavaliere Olaf, che quando le cose si mettevano male ed aveva voglia di sparire, se ne andava sotto le stelle “ a sognare “, perché era l’ unico modo per essere felice.