Ti ho riconosciuto subito, senza alcuna esitazione. Solo lo stupore di vederti, dopo tanto tempo. Sei sempre lo stesso, più maturo nei lineamenti, ma gli occhi sono gli stessi, quelli di allora. Vent’anni. In un secondo hai cancellato i corridoi di questo supermercato e la folla di carrelli nervosi.
Siamo tornati indietro, all’improvviso, a quell’estate, quella dell’83. Chissà se la ricordi, così come io la ricordo…
Era finita da poco la scuola, io ero in terza superiore, tu quell’anno avevi gli esami di maturità e studiavi come un matto. Passavamo i pomeriggi ai giardini, quelli dietro casa: adesso c’è un concessionario dove le chiacchiere della nostra compagnia rinsaldavano i nostri sogni di adolescenti. Ma quell’anno i pomeriggi erano senza di te.
Ti ricordi quando Gianna, Lory, Mary ed io ci presentammo a casa tua, con la scusa che volevamo esserti d’aiuto per lo studio e tu con una risata smontasti i nostri buoni propositi, consapevole del fascino che esercitavi su di noi.
Noi tutte non facevamo altro che parlare di te: ognuna di noi sognava di diventare la tua ragazza, ma tu eri lontano anni luce da noi e dai nostri desideri.
Ma il momento che aspettavamo era la sera, quando tutta la compagnia si ritrovava sul muretto dietro casa, a raccontare barzellette e a suonare la chitarra. E quante volte gli inquilini che si affacciavano sul nostro muretto ci mandavano via insultandoci o investendoci con secchi d’acqua gelida, quando il nostro vociare si faceva più intenso.
E le liti e le parole infuocate come l’asfalto di quelle sere di Luglio, quante cose potrebbe raccontare di noi quei marciapiedi.
Mi ricordo i preparativi, la sera, prima di arrivare in via: il trucco, eccessivo, il vestito, i capelli. Due ore per decidere cosa indossare, con le urla di mia madre perché occupavo il bagno per un tempo interminabile.
Ma io non sentivo, volevo essere bella, così come le altre che alle otto e mezza venivano a citofonarmi. Non rispondevo neanche. Giù per le scale a perdifiato, senza aspettare l’ascensore,
quattro piani volando e poi a guardarci nel riflesso del vetro del portone. E mentre uscivamo davamo inizio al rito. Chi doveva venirti a chiamare. Alla fine stanche di litigare avevamo deciso dei turni. Eravamo sette ragazze: una ragazza per sera.
Quando toccava a me, rubavo anche il profumo a mia mamma. Lo sai che riesco ancora a percepire la tensione di quando venivo sotto il tuo portone e poggiavo l’indice sul citofono dove c’era la targhetta col tuo cognome “Preziosi”. Le mani mi tremavano e sentivo freddo e caldo insieme. E il dover pronunciare il mio nome mi sembrava uno sforzo al di sopra delle mi possibilità.
- Sono Olga…- tutto qui e tu che rispondevi: - Arrivo…-
Parole, parole fiumi di parole e di sguardi, le nostre serate, fino a quando mio padre non si affacciava al balcone e allora sapevo che la mia serata si era conclusa, e la delusione per il rietro si amalgamava con le speranze per quella che sarebbe arrivata l’indomani.
E il temporale… te lo ricordi? Ci colse tutti di sorpresa mentre Luciano suonava “Questo piccolo grande amore”. Ci fu un fuggi-fuggi generale e tu mi prendesti per mano e correndo ci riparammo sotto il portone della Giusy, bagnati fradici, col cuore a mille, almeno il mio.
Te lo ricordi l’imbarazzo del nostro silenzio? Io si. Era devastante nonostante il putiferio dei tuoni. Saltò persino la luce, e quando accadde ti avvicinasti, porgendomi il fazzoletto.
- Vuoi asciugarti un po’ i capelli? Stai gocciolando…- mi domandasti.
Io ti risposi di no senza guardarti e allora ti facesti più vicino e col fazzoletto mi asciugasti una guancia. Allora mi voltai e tu mi accarezzasti anche l’altra e mi sussurrasti: .
- Come sei bella, Olga…- e le tue labbra furono sulle mie. Gentili, morbide, calde mentre le tue braccia mi circondavano la vita e i nostri corpi, piano, si accarezzavano, timidi al primo contatto.
E mentre il temporale si allontanava Gigi e gli altri ci raggiunsero, e non impiegarono molto a capire ciò che era successo; ma gli adolescenti sono misteriosi, e per una sorta di tacita decisione ci ignorammo per una settimana, lasciando che le chiacchiere su noi fossero l’argomento preferito degli amici che volevano sapere e soprattutto volevano dispensare consigli.
Tutto così fino al giorno in cui mi chiedesti di venire a prenderti a scuola, dopo gli orali, perché volevi parlarmi.
La fine degli esami ti aveva reso euforico: continuavi a parlare, io continuavo a tacere. Andammo a mangiare un panino in centro e mi abbracciasti. Non ci fu più bisogno di nessu chiarimento: eravamo insieme.
Così cominciammo a disertare le serate con gli amici, al muretto. Bugie per starcene da soli a parlare e a darci baci, baci da non poterne più, di quelli che l’adrenalina la lasciavano nelle vene.
E ti ricordi cosa mi dicesti quella sera in cui tardai di mezz’ora il rientro ed ero preoccupata perché mio padre mi avrebbe rimproverata?
Dicesti: - Devo dirlo a tuo padre di stare tranquillo: tanto io ti sposo Olga…-
Passammo insieme un anno, tre mesi e sei giorni, prima che tu e i tuoi traslocaste a Torino, perché tuo padre aveva ottenuto il trasferimento. Te le ricordi le lacrime e le promesse?
E ora sono qui a seguirti col carrello della spesa, presa da ricordi lontani. Eppure sembra solo ieri. Ho anche pensato di speronarti, per guardarti negli occhi e scoprire se qualcosa di quell’estate è ancora viva dentro te. Ma mi sento una sciocca, così faccio dietro front ringraziandoti mentalmente per avermi fatto sorridere e all’improvviso ti sento:
- Olga…- mi giro col cuore che accelera e allora ti vedo che sorridi ad una bimbetta di cinque o sei anni dai capelli lisci e neri che tu prendi per mano e allora penso: chissà...