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E se non esistessero montagne
continueresti forse all’infinito?
Immenso agglomerato, langue
l’orizzonte a vedersi posseduto
dal case basse e grattacieli e quando
a fianco a Yokohama le montagne
si stagliano improvvise e venerando
il Fuji posa silenzioso toglie
forse a te un po’ di magnificenza
formicaio di umana potenza
organizzata, e torna l’orizzonte
naturale a dominare
come sempre
a Oriente verso il mare.
Parrebbe che i colori radunatisi
t’abbian dato la lor benedizione
capitale dei contrasti, formatasi
sul crogiolo catalano di culture
sul gotico tetro impiantando il sole
nostrano, e boulevard tra le stradine.
Come trovasti una sintesi, sole,
tra Dalì e il più freddo gotico scultore?
Parrebbe, da sopra, nel colore.
Non uno solo, tutti insieme
a formare le bizzarre architetture
e la ridente colata di cemento
che dal Montjuic si puo’ ammirare
fondersi nel colore
del nostrano mare.
Bianco, bianco sporco, bianco imperfetto
verde a macchie (piccole) sulle alture
che ti costellano, e sul Licabetto
oasi di pace nel tumulto impuro
di bianco, pur omogeneo, l’Imetto
e i monti fanno sì che all’infinito
non si spanda, ma tu gli dai l’assalto
già le pendici più basse hai aggredito
e coperto, colata di cemento
del primo popolo più progredito
un tempo, ora l’Acropoli contempla
quanto dell’Attica ha fagocitato
la città-mostro, pur a guardare
il Partenone svettante sul Saronico
golfo, ancor vien da esclamare:
"Questa città è benedetta da Atena
dimentica d’ogni sua e altrui pena
nell’azzurro del mare!"
Ancora in te c’è meraviglia, capitale
del lusso svanito e dell’ostentazione
della ricchezza, ancor monumentale
lo sei, oltre ogni immaginazione.
Ancora la Giralda contempla
quei giardini sontuosi e reali,
non più arabi, ma non sembra
agli occhi di chi stia a guardarli.
Ancora da folli appare la cattedrale
nella sua mole eccessiva, viva
ancora appare la città che svanire
ha visto la sua importanza, viva
la bellezza che si è acquistata:
bellezza spagnola, americana,
africana, cristiana e musulmana,
bellezza, grandezza mai intaccata
dalla rovina temporale
che ti ha travolto, sontuosa regina.
Grande il Guadalquivir guarda al mare.
Urbe gloriosa, sonnacchiosa al tramonto
dietro le colline, dietro il cupolone
dietro i tetti rossi e le rovine, sotto
il sole rosso sei docile ammantata
d’augusta decadenza, costellata
di cupole, non scontato il conto
delle tue meraviglie
ora che calda, innocua e eterna, nel verde
che ti circonda sembri sprofondare
ora che tinti d’un solo colore
paiono il Pantheon e il grande Quirinale
ora che tu, dominatrice immortale,
sembri stretta tra monti e colline,
or che le guglie sono docili e il Tevere
abbraccia la sua formicolante ansa
modesta e monumentale.
È ora, Urbe, che fai anche sognare
e l’orizzonte ti dischiude il mare.
Vollero il Vesuvio gli dei
per coronarti, stracciona principessa
a cui profusero tutta la bellezza
del paesaggio, dei monti Flegrei,
delle isole del golfo perfetto
della collina di Sant’Elmo, tu ti stendi
indolente e beatificata, non ti prendi
mai cura di dove, per divino effetto,
sei stata collocata, ma offendi
il tuo aspetto, ti stracci la veste.
Pur sei troppo bella, stracciata
risulti ancor più rifulgente.
Compatta e caotica, tagliata
da uno stradone urlante vitalità.
Sirena di chiese e cupole, ammantata
di traboccante, viva, urbanità.
Distesa di casupole soffocante
per traboccante ostentazione di bellezze
dalle colline aperte alle brezze
riacquisti il tuo lato ammaliante,
abitato rigoglioso, che quando
si alza lo sguardo per ammirare
il Vesuvio, è anche unico al mondo,
Città divina, il tuo formicolare
abbraccia il mare. | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«Tokyo, Atene, Barcellona, Siviglia, Roma, Napoli: probabilmente le sei viste di città dall’alto che più mi hanno colpito. Non so se abbiano davvero un filo conduttore tra loro, io ho cercato comunque di trovarlo.» |
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