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Quanto sale
sui regi colli...
pareggian la terra?
V’è chi gode?
Sospirare il luogo nostro
assai mi tange. Echeggian
le rimote vestigia, e non gloria
portano, al popolo
passato, ma voci altere
e maraviglia
rimembrano, a certuni,
d’una schiera ancor lucida.
Satollo e ormai pingue,
né il pane, né i giuochi
potranno il mio spirto saziar.
O Roma mia, ahi non fiammeggiar!
Infondere virtù,
dal maggior cor prepotente,
perfino agli immani tuguri
del pensier loro, e ordir
sotto l’egida
di un’unica passione,
contra tutti, per tutti,
sì che di sudditanza giammai pianga
il comun volto: nulla
puote queste parole soverchiar,
ma se l’altrui buon senso ahimè non surge,
o la misera sorte,
con beltà non si riesce a temprar,
allor comandar si deve
al vermiglio calar,
che sovra l’uno insurge; che sovra gli uni insurge.
Ben che ignori
cosa diritto sia,
nefaste propaggini trovo:
il bene, rado converte
il male, ma il mal spesso travia
il falso bene,
e non sovente se stesso recide.
Il peggio renderà
forse il meglio, ma io non posso,
mutar non voglio
per vil stoltezza o indotta villania:
sì gravan turpe genti,
sulla stadera
d’immensi tali
di senno scemi,
e di fieri crapuloni,
ch’ogni cosa divoran
pur d’esser librati.
E qual migliore astuzia
per non più scerner
la ragione, del variar
la traccia stessa
che la vole?
Ancor meco vivrà questo disio,
ma troppi posteri inclini saran.
Là dove sempre l’arbitrio si scinge,
talvolte un aureo segno agogneremo.
A ognuno il fulgor proprio.
Caute paion le gesta oggidì,
sebben arduo sia bilanciar,
ciò che sento vacillar.
Resurgere e giugnere oltre
la gentil dirompenza,
non più dubbiar mi farebbe,
dell’aureo segno che certo non è.
Udrò mai, dal campanil
di ieri, il suon dell’Europa ventura?
Qua su intanto seggo,
seggo mirando indietro,
e i campanil
di tutti i suoli or dinanzi. | |
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