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O voce, che dal capo mio risoni
in queste membra
senza requie, e dal duale idillio scevre,
del buio sei forse l’infida lingua?
Sei tu la stessa noia cui fuor bado?
Essa fugge il mio potere;
s’appena il mio volere,
e non colgo dunque come
alcuna prole stridente,
possa ahimè partener,
al natio luogo silente.
Meschino, inesistente,
sì impuro e sì ammaliante: l’amor, scisso
è dal mondan cammino, ed immenso è
nel suo compianto.
Oh se fossimo diversi,
armoniosi, inumani...
ben che ostico sia il divagar,
null’altro spero
da ciò ch’ella potrà, ma pur storno
dall’interior dissidio,
il disio che tanto duol.
Giammai indugiar, o rinunziar potrei,
se a danno dell’indegna debolezza
che ci compagna,
l’uman canto del piacer
di lei, non pervadesse
la crepitante mia ira,
perfino a ogni pertugio,
a tal pena, al tanagliar
del frale animo,
non bieco, ma esausto,
per il lieto fervor sovente infausto.
Tenterò o m’asterrò?
Chi sa cosa viva in me,
chi sa cosa prevarrà,
ma da me stesso mi guardo,
anche da me medesmo ben ti guardo,
così da schivar lo spirto
ch’or vagheggio, non scevro
dal pensier, in alto irto
di mestizia; e rifuggo
il male, rifuggo
la vita, imperciocché abito
fulgenti e inusitati
sogni lontani,
là dove non si veglia
sui giacigli degli accorti. | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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