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"La morte è il vero lavoro della vita."
Alphonse Louis Constant
Loro, esile corteccia sui caduchi
Ramoscelli che pendono superflui
Nella penombra fradicia e discreta,
Residui periferici in esilio
Dall'alveo rigoglioso della verde
Pianta, un rimedio stavano cercando
Di distillare dalla lunga e immensa
Radice che le viscere percorre
Del formicaio globale, escrementizia
Aspirina dal fondo del cadente
Salice, per lenire delle proprie
Ossa – entro l'intervallo tra la fuga
Di Ieri e l'inseguimento di Domani
Stagliate come torri di cartaceo
Metallo – la latente dissolvenza
E il freddo scricchiolio. Loro, ombre, cime
Di ciminiere a pieno regime, ombre
Su splendenti fuliggini, solo ombre,
Ombre di diligenti ragionieri,
Alti, sulla precaria evanescenza
Delle più alte propaggini sospesi,
Volevano discendere giù in basso
Per formare tra il tronco e la radice
Un ponte che del Salice – reclino
Sul cranio tetro delle Folle Estinte
A mo' di crine vegetale – il succo
Carpisse e il suo segreto officinale.
Così Loro, sorretti dal sudore
Di ampie fronti, alti, dopo aver a lungo
Di monete e bandiere computato
La luccicante progressione, in fila
Composti, ruminando in mezzo ai denti
I grani compiacenti di lustrale
Melagrana, sputavano sull'ara
Che la prosperità del limo accoglie
E la compagnia grata del globale
Formicaio: come scala di armonie
Burocratiche il loro muco scese,
Planando sulle note da un solerte
Organo accatastate, e intorno a vaste
Pareti s'insediò, vischioso omaggio,
Nella camera ardente preparata
Per la prole di Stakhanov perduta.
Sempre nel Grande Scherzo c'è chi sale
E chi scende, ma inerte la materia
Soppesa e rende vano dalla culla
Al loculo ogni sforzo: rifuggivo
Io inerme Loro e i loro pii precetti
La mano nascondendo in più profondi
Ricetti, mentre un vomere pendente
Da tergo la incalzava; e le strutture
Loro, incombenti, sopra il suolo a strati
S'incrostavano, immemori del fatto
Che il lavoro non rende la fatica.
Sotto il mio ricettacolo ove sangue
Di rettile letargico languiva
Nel pingue mio ventricolo, più in basso
L'occhio giù nell'androne di Babele
Rotolava e, sospeso, dalla tromba
Ardita delle scale risonanti
Alla plumbea catabasi assistevo
Dei rigidi colletti inamidati,
Sul biancheggiare ritmico che l'eco
Dell'ovatta nevrotica dei clacson
Annega; e scivolare sopra il muco
Cristallino vedevo, verso il punto
Omega pietra d'angolo del grande
Anfiteatro, una fila monocorde –
La fila dei contabili distinti
Ordinata e impettita, che nel solco
Senza pieghe si andava ad allineare,
In quel solco livido scavato
Da un giogo inesorabile foriero
Di voluttà gementi, dissoluto
Suggello che dei muscoli la polpa
Consuma e del cervello la materia
Infiamma con entropico profitto.
Così, fuori dall'orbita dell'occhio,
Si proiettavano le ombre laboriose,
Scintille volteggianti nel clamore
Che informa i penetrali di Mammona.
E, da fuori, l'intonsa mano espulsa
L'autonomia dell'opera cercava,
Irridendo con nobile distacco
Il Grande Scherzo delle ombre padrone
E schermo. Loro, sopra di me e accanto
A me, invano cercavano strutture
Nuove per una casa di feconde
Fondamenta su un solido terreno,
Invano affastellavano puntelli
Sul fusto dei contorti miei precetti,
Ma il lavoro non rende la fatica.
Altri giorni funestano i miei giorni,
Altre strutture incrostano strutture
Lungo il solco che infossa sulla danza
Di veloci ore il nerbo, edificando
Lindi palazzi, esempio di marmorea
Solidità per chiocciole a cui un passo
Feroce la scia estrema e vespertina
E la viscida impronta, verso il vuoto,
Ne incalza industre. Adesso di soppiatto
Io, sospeso sul baratro, tra prismi
E bolle di sapone che dai mondi
Meschini di costoro la deboscia
Della prole di Caino e il suo fragore
Con giochini separano, e con luci
D'oro, la mano lascio – e le sue forze –
Cadere nell'inerzia, verso il luogo
Ove le fondamenta per intero
Sono scosse, ogni Tavola è spezzata:
Il lavoro non rende la fatica. | |
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Pan23 |
22/12/2010 02:16| 1506 |
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