Vivevo l'estate come un gioco, l'attendevo per la sua purezza e la gioiosa lunghezza del giorno.
Vestivamo di colori senza maniche mentre il giorno correva tra bambini e biciclette.
Il momento più atteso era il respiro della pioggia, quei temporali che comparivano nel mezzo di un pomeriggio o al limitare del giorno polveroso.
Erano gonfi nuvoloni che si facevano precedere da luci improvvise, fugaci, e roboanti tuoni.
Udivo i suoni farsi ovattati fino a scomparire tra voli di rondini silenziose, radenti i muri di cinta.
Scrosciavano quindi parole di pioggia tamburellanti, vivaci, sempre più insistenti e loquaci. Assorti, ne respiravamo l'aria dolciastra, assaporavamo piccole gocce sfuggite alla terra, assetati di fresco.
Talvolta v'erano danni alle cantine, si correva a vedere l'acqua morbida cadere a fiotti lungo le discese e riempire ogni anfratto di chiuso: scivolava sotto i portoni per raccogliersi fino all'arrivo dei nostri secchi.
Quante risate, allora, nell'infilarci gli stivali di gomma o a piedi nudi sguazzare nel lago coperto, chiamati ad aiutare e fermandoci, invece, a solleticare i bambini che ancora eravamo.
Rileggo ora nella notte di pioggia quei giochi, le sorprese, gli annunci di vita, e vivida torna la gioia dell'essere bimba.
Torna il canto d'estate, tra note smarrite, e rinfresca ogni cosa, torna la pioggia, azzurra, giocosa in ritmi alternati, liquida poesia a riempirmi l'anima.