Era la fine di dicembre e nella cucina inondata di luce i raggi illuminavano la tua piccola figura. Era il tuo posto preferito quello, mamma, ed era sempre lo stesso, di fronte alla grande finestra. Le mani posate sul tavolo quadrato del salotto, una rivista sfogliata distrattamente e gli occhi color dell’ ambra rapiti dalla natura e dalla vita che fuori scorreva veloce, fissavi il lento dondolare dei rami del grande pino e il cinguettare sommesso di pochi uccellini infreddoliti. Mi chiedevo molte volte cosa pensassi, cosa avresti voluto dirmi mentre invece tacevi, prigioniera d’ una nebbia sottile, in un doloroso silenzio. Ed eri così fragile, così indifesa, e spesso ti sedevo accanto accarezzandoti piano, stringendo le tue mani tra le mie.
Era già alle spalle il ricordo del Natale, dei suoi colori, dei suoi profumi. Sulle pareti ancora gli addobbi, l’ albero in un angolo. L’ avevamo fatto insieme quell’ albero, aprendo una vecchia scatola bianca. Quanti ricordi in quello scrigno! Era la stessa di quand’ ero bambina, legata con lo spago, ed ogni volta era un’ emozione nuova riscoprire gli oggetti e i ricordi di un tempo. Tu come un bimbo felice prendevi un angelo, una ghirlanda, una stellina, canticchiando e sorridendo, me li porgevi perché li fissassi ai rami. Poi battevi felice le mani quando finalmente tutto era pronto e le nuove luci, ricomperate qualche tempo prima cominciavano a lampeggiare e a diffondere la musica. Nel solito angolo della libreria preparavamo il presepe, gli stessi pastori, le stesse casette, disposte diversamente ogni volta, fingendo di creare scenografie e paesaggi diversi. Ti piaceva avvicinarti scrutando e sussurrando piano i nomi dei personaggi, degli animali, mentre prendeva vita e forma. Accarezzavi dolcemente il Bambino, toccavi con mano leggera ogni cosa e con la tenerezza del tuo sguardo seguivi i miei gesti e ti strappavo un sorriso, poi d’ improvviso tornavi al tuo silenzio, e restavi così, le mani in grembo nella grande poltrona seguendo i miei passi con gli occhi..
Com’ era diverso un tempo, quando eri tu a preparare tutto ed ero io a battere le mani e a saltellarti intorno felice. Quanto tempo era passato, così in fretta, troppo in fretta, sembrava un secolo, mentre era stato un battito di ciglia appena, ed era volato via, lasciando i tuoi capelli pieni d’ argento e piccoli solchi sulle guance. Fino a quando era successo, e proprio a te, di cominciare a dimenticare, pian piano e senza un apparente motivo. Dapprima furono solo piccole cose, passate sotto silenzio, impercettibili, come il dimenticare di fare una commissione, o fermarti nel bel mezzo di un discorso, oppure non riuscire a trovare un oggetto. Finché una sera dimenticasti di chiamarmi al telefono, e poi la mattina seguente, da allora accadde sempre più spesso; ma il dolore più grande fu quando, e per la prima volta, non fu la tua voce a farmi gli auguri per il mio compleanno a prima mattina, avevi completamente rimosso quel giorno quasi stupita che fossi io a ricordartelo; fu davvero un brutto colpo, lo ammetto, realizzare che era tutto vero, che man mano la tua mente si stava rinchiudendo in un mondo appannato, fatto di giornate uguali e senza colore, dove l’ orologio non aveva più senso. Era il mio cruccio, il mio dolore, la mia rabbia, giorni e giorni passati a chiedermi la causa di tutto questo, ma non esisteva un perché, un motivo apparente. Mi ribellavo, cercando di spronarti, inventando piccoli compiti che potessero in qualche modo risvegliare attraverso i gesti i tuo ricordi, sfogliando insieme vecchi album di fotografie, chiedendoti di raccontarmi episodi della nostra vita passata, che conoscevo a memoria e che invece tu stentavi a riportare alla mente, oppure portandoti a passeggio nei luoghi che conoscevi e che più amavi e che magari avrebbero potuto riaccendere una scintilla nella mente assopita. Quando mi resi conto che sarebbe stato tutto inutile, e che non ci sarebbe stata una soluzione, capii che dovevo imparare la cosa più difficile del mondo, amarti di più, ma di un amore diverso per il tempo che restava, amarti di un amore materno, e da figlia diventare madre, uno scambio di ruoli, che non era giusto, che non sopportavo ma che sarebbe stato necessario, soffocando le paure, i dubbi, le incertezze, fingendo una sicurezza che non avevo, vestendo il viso di un sorriso ogni volta che ti guardavo mentre dentro di me, giorno dopo giorno, saliva la certezza che presto ti avrei perso, che avrei dovuto lasciarti andare via, rassegnandomi, e con la gola chiusa da un nodo di pianto andavo avanti con fatica.
L’ avevo già provato quel dolore atroce dell’ abbandono molti anni prima, ero poco più che una bambina quando papà ci lasciò all’ improvviso, troppo piccola per capire quel distacco improvviso e incredibile. Ma a quel tempo c’ era il tuo amore a compensare quel vuoto, e il dolore l’ avevamo diviso insieme, unite in un abbraccio da cui non ci eravamo più sciolte. Eri diventata il mio unico punto fermo, la mia certezza, invece ora dovevo capire che presto sarei rimasta sola, orfana delle tue carezze, dei tuoi sorrisi, dei tuoi consigli e delle tue ramanzine, che sarebbero passati giorni, settimane, una vita intera e non saresti stata più al mio fianco, confidente preziosa dei momenti più belli o fragili del mio vivere.
Fa parte della natura umana la morte, è dentro la natura umana la morte, perché nulla è per sempre, e non sai quando arriva, sai che esiste ma ne sfuggi il pensiero, che fa paura, e se qualche volta ti schiva beffarda pensi d’ essere il più forte, invincibile, e di averla fregata, così l’ accantoni in un angolo, fingendo di ignorarla, finché un giorno d’ improvviso è L’ ATTIMO, inarrestabile e senza scampo. Un po’ come quando principia sera e guardando l’ orizzonte sai che presto il sole andrà a morire e il giorno avrà fine, ma resti lì a guardarli quei graffi di luce cercando d’ afferrarli. Ma tutto svanisce, in fretta, troppo in fretta, e si fa notte e negli occhi resta un ultimo abbraccio di colore e armonia, di bellezza, d’ amore.
Passarono pochi giorni da quella fine di dicembre e accadde davvero, la Signora era impaziente d’ averti in quella gelida sera dei primi di gennaio. Ma non si è mai pronti per vederla arrivare la morte, è il mistero più grande e incomprensibile, una vertigine che lascia storditi, attoniti, impietriti, impotenti.
Ero vicina a te, in ospedale da giorni, soffrivi, ed io impotente di fronte a quel dolore, senza poter far nulla, ipnotizzata di fronte alla realtà, sapevo che s’ avvicinava l’ ora a grandi passi. Stringevo i pugni fino a farmi male, guardavo fuori dalla finestra odiando il mondo intero, e camminando avanti e indietro nella stanza, vegliavo ogni flebile respiro, chiamandoti piano e accarezzandoti il viso.
Come avrei voluto portarti a sentire il rumore del mare, a respirare il suo profumo, come avrei voluto farti sentire il calore del sole, e forse avremmo riso mangiando un gelato in pieno inverno, forse avremmo chiacchierato come ai vecchi tempi e tu mi avresti accarezzato, o forse avremmo camminato raccogliendo conchiglie sulla spiaggia deserta.
Invece la vita sfuggiva, rapida e senza scampo, come i granelli dentro la clessidra, invece eri distesa su quel letto, con una flebo che nel braccio scandiva monotona e uguale inutili gocce, agganciata ad un monitor che registrava il battito del cuore che piano s’ arrendeva, in un ticchettio estenuante, immersa nel torpore che ti dava tregua.
D’ un tratto apristi gli occhi color dell’ ambra e girando il capo per un’ ultima volta mi guardasti con tutto l’ amore del mondo. E’ stata l’ ultima carezza quella, il tuo ultimo abbraccio quello sguardo, che non dimenticherò mai, in cui racchiudere tutta la tenerezza, i baci e le parole non dette e i mille “ ti voglio bene”. E sulla dolcezza di quell’ ultimo respiro il mio grido strozzato, mentre ti cullavo piano nel pianto a dirotto.