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Spilli di gelo sforacchiavano come molesti aguzzini la grossa treccia di lana bianca, che dava corpo alla mia berretta fino al maestoso fiocco lasciato orfano sulla testa.
La larga sciarpa rossa punzecchiata ai bordi da batuffoli di velluto neri, s’ infiltrava di vento gelido, rabbrividendo pure lei, come me, dal freddo. Persino i troppo sottili guanti di camoscio scuri non ne volevano affatto sapere di proteggere le mie lunghe dita ormai mummificate dal fumo grigio della nebbia. Con le ciglia incollate da una pioggerellina dispettosa, i capelli sfuggiti alla cuffia ed appiccicati alle labbra imbrattate d’ acqua, me ne stavo imbambolata sull’ uscio di casa, spintonata dall’ urlo del vento, sempre più folle e freddo. Un’ impresa sarebbe stata agguantare le chiavi, rannicchiate in fondo alla borsa ben serrata mentre la fine pioggerellina di prima lasciava il posto ad un furioso acquazzone. Maledizione! E poi finalmente il calore di un camino che mi sorride. Stringo le palpebre e goccioline infinite si catapultano sulle mie guancie gelate mentre mi tolgo berretta, guanti e sciarpa e li lancio sul divano, sbuffando. Che serata! Già, proprio una serata fantastica. I tuoni ed i lampi si mescolano al frastuono dei petardi ed ai fischi di serpentine illuminate, che scodinzolano briose nell’ aria, dando luogo a laghi di luce come meteore di illusioni e sotterfugi. E poi risate goliardiche giovani ed anziane, che impastano lo scalpitio di mocassini, tacchi a spillo e stivaletti da texano mentre si avviano con il cuore in mano a dar sfogo ad un divertimento superfluo, patetico e recitato. Ed io? Io osservo quel ceppo solitario, che brucia lentamente in uno scricchiolio lento e tranquillo, emanando calore in una stanza nuda di volti, tranne il mio. Sciolgo i capelli umidi sulle spalle avvolte da una vestaglia di seta rossa. Indosso babbucce morbide di panno rosa, che mi avvolgono le caviglie serrandole in un nastro di raso. Sento tristezza in questo vuoto che mi circonda, mi soffoca e mi assilla con i fantasmi della mia ansia. Di scatto giro il capo. Un’ ombra mi sfiora l’ abito ‘ da sera‘. Illusione. Sono sola. Nessun altro in ogni dove. Alzo le spalle e guardo l’ albero addobbato come Dio comanda, troneggiare al centro della stanza, carico di festoni inebrianti, luci e palline di ogni colore possibile ed immaginabile altresì carcerato alle radici da panettoni, bottiglie, scatole anonime e cioccolatini di ogni tipo. Ed ancora risate, riecheggiano dai balconi. Chiasso di note distorte dai lampi e dai tuoni si rincorrono in strada tra clacson arrugginiti di grida a non finire. Sospiro con una lacrima sul viso. Ho un mattone sul petto che mi pesta. C’è una rabbia che mi morde dentro e non esce. Ho chiuso la porta al mondo. Troppa festa è indigesta. Il troppo storpia. Oppure sono io che cerco scuse a queste mie stolte teorie? Ancora di scatto giro il capo. Ho sentito un fantasma strattonarmi l’ abito. Ho assaporato un alito. Fantasie. Sono sola. Nessun altro in ogni dove. E’ l’ impossibile, l’ illusione, che si ciba di speranza. E il ceppo cigola la sua fine sul camino. L’ acquazzone violenta il vento che non cede. I tuoni ed i fulmini sono strumenti diabolici di un’ orchestra in un teatro di attori, che danzano e strillano, recitando una parte. La stessa identica sinfonia di tutti gli anni. Mi prendo la testa tra le mani mentre odo graffiare la porta con foga. Ascolto. Di nuovo quel grattare insistente ed impertinente. Bagnato come un pulcino fradicio, un micio mi scruta il viso. Piccolo, grigio, infreddolito e con un’ unghietta spezzata miagola e lacrima, leccandomi la babbuccia spelacchiata. Divino sarà trascorrere con te la serata. Ti chiamerò Silvestro e che tu sia Benedetto.
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