E poi, un giorno, mi disse quella frase. Fu come una doccia gelata, una specie di schiaffo sulla guancia, di quelli che non senti subito il dolore perchè ci sei rimasto troppo male che non te lo aspettavi. Avete presente quella classica scena da film in cui uno dei due interrompe un momento d'amore con una freddata e la musica in sottofondo si interrompe con il rumore della puntina che graffia sul vinile?
Ci conoscemmo in uno stupido bar, una stupida mattina di settembre. Avevamo puntato entrambi lo stesso tavolo ed entrambi avanzavamo come equilibristi, con il cappuccino bollente su una mano e la brioche sull'altra. Ci guardammo qualche istante come a dire "E ora che si fa?". La cosa mi divertì molto. Venivo fuori da uno di quei momenti in cui ti guardi indietro e ti chiedi come ce l'avessi fatta a restare ancora in piedi. Quei momenti in cui sai di essere vivo ma le giornate hanno sempre lo stesso colore, il tuo umore è sempre uguale, convalescente, come nei giorni dopo una brutta influenza. E quando passi il tuo tempo così, nell'apatia delle ore che si susseguono lente come una tortura, non puoi che aspettarti nulla di buono dalle tue giornate. Subire un dolore immenso, che sia una separazione, una perdita, un addio, ti chiude completamente dietro un muro di sofferenza che tu stesso costruisci per anestetizzarti. Sono molte le persone che cercano sollievo al loro male nei ricordi di quei momenti che non torneranno più, nella solitudine assordante dei pensieri che non riesci a fermare, nella tristezza della rabbia che ti pervade e poi ti abbandona per far di nuovo posto alla disperazione. E' un comportamento strano ed apparentemente autolesionistico quanto strano è, allo stesso tempo, credere che per superare un dolore sia necessario uscire fuori, circondarsi di persone, a volte persino avere atteggiamenti contrari a cio' che si è, e fare cose che mai avresti fatto. Come se il male ricevuto andasse via con la vendetta e la verità cambiasse con un giro di drinks. Chiudersi nel proprio dolore è un passo difficile, non biasimo chi lo trova insensato. Ma la sola domanda che ci attanaglia in quei momenti bui è "perchè?" ed il solo modo per andare avanti è rispondere alla domanda, darsi un motivo, una spiegazione. La risposta non porta mai via il dolore ma se prima eri solo morto dentro, adesso sei morto uguale ma senti, in qualche modo, di essere vivo. E' il primo passo verso la guarigione.
Lo conobbi così, in uno stupido giorno di settembre, mentre credevo che sarei stata destinata all'apatia per sempre, e ci sedemmo allo stesso tavolo con nostri stupidi cappucini e brioches. La nostra fu una storia d'amore meravigliosa. Fu brevissima ma fu la cosa più intensa che avessi mai provato fino ad allora. Uniti praticamente in tutto. Interessi, passioni, idee. Intesa perfetta a letto. E innamorati. Certo, adesso che lo dico sorrido. Chissà, magari si era solo illuso di esserlo o aveva bisogno di crederlo. Le illusioni nascono proprio dal nostro bisogno di credere che cio' che vorremmo sia vero e ce ne aggrappiamo per non soccombere ad una realtà che non corrisponde. Anch'io mi ero illusa e l'avevo fatto per lo stesso motivo. Avevo bisogno di credere che mi amasse quanto io amavo lui, proprio come lui aveva bisogno di sentirsi ancora vivo.
Le cose furono abbastanza veloci tra noi. Un invito a cena informale, tante cose dette, un feeling rovente come il fuoco acceso di un caminetto. Tre bottiglie di Barolo e 4 ore dopo i nostri corpi si intrecciavano tra le sue lenzuola. Era un uomo affascinante. Non era bellissimo, i tratti del suo viso erano marcati, severi, aveva un naso importante, appena schiacciato sul setto. Era sexy, il suo naso. Quest'aria da ex-pugile, le spalle larghe, il petto fiero, ed il suo modo di possedermi, senza distogliere un solo istante il suo sguardo eccitato ed intenso dal mio, mai un attimo fino all'orgasmo. Era quello il momento in cui chiudeva gli occhi tirando appena la testa indietro. Silenzioso e orgoglioso come sempre. La cosa che mi fece innamorare di lui fu il suo farmi sentire sua. Quella sensazione di possesso, di dominio emotivo, di desiderio fisico. Ogni donna vorrebbe un uomo così, continuamente alla ricerca del tuo amore, irrefrenabilmente disposto a rovesciarti addosso il suo, in un vortice di frasi che ti lasciano senza fiato, di gesti che ti fanno venire un nodo alla gola, di sensazioni talmente intense da farti sentire quasi morire. A volte mi capitava di sorridere tra me e me come una sciocca ripensando ai suoi modi eclatanti e un pò retrò per dirmi ti amo. La rosa sul vetro della macchina o la panna del cappuccino a forma di cuore. E mi capitava di commuovermi per il suo modo più intimo di farlo, con il suo sguardo che mi arrivava fino all'anima, fino a farmi sentire un sussulto che neanche cento ti amo urlati a squarciagola avrebbero potuto provocare. Un amore così, il nostro, nato e cresciuto in un mese soltanto con l'entusiasmo sfrenato di chi inizia una nuova era, con la passione indecente di due ragazzini in piena tempesta ormonale e l'intensità emotiva di due amanti che si amano da una vita.
Ma tutte le grandi storie hanno un ma. E quella sera di fine ottobre aveva una luna troppo grande, una luna insolita. Fredda e distante nonostante le dimensioni. Cenammo a casa sua, come spesso facevamo, e cominciammo a parlare di noi, delle nostre vite, dei nostri pensieri, dei trascorsi. E come sempre ci spostammo sul divano, calice di vino mezzo pieno, e ancora parole su noi. Ci amavamo così tanto eppure eravamo due estranei. Oggi spesso mi chiedo se c'è un lasso di tempo reale, concreto, fatto di giorni che passano, per poter definire un sentimento Amore. Ho sempre creduto di no. Certe cose le senti all'istante. Ma c'è sempre un ma, e forse mi sbagliavo.
Fu la prima volta che mi parlò di lei. Di quello che era successo, del dolore provato, dei tentativi, della forza per poter ricominicare e l'orgoglio di esserci riuscito. O almeno di crederlo. Io lo ascoltavo con tenerezza e dolore, sperando di vedere nei suoi occhi il distacco di chi ha chiuso un capitolo per sempre. Poi quella frase. Mi è rimbombata nelle orecchie per giorni, come un martello pneumatico sull'asfalto. Chissà se ha davvero capito cosa stava dicendo, se ha davvero realizzato. Cerco spesso di concentrarmi su quei secondi, di ricordare il suo viso, la sua espressione. Se lo disse con incoscienza o fosse anche solo in parte consapevole. Ma è solo un dettaglio. L'uomo che fino a pochi istanti prima mi diceva ti amo, non aveva dimenticato. Lo lasciai parlare annuendo e mentre il mio sangue era completamente congelato fingevo di seguire i suoi discorsi che intanto variavano altrove, e lo segui in camera da letto dove facemmo l'amore. Ma per me non fu mai più lo stesso.
Non era amore, il suo, ma l'illusione di poter ricominciare ad amare. Non era amore ma necessità di crederlo, per sopravvivere ancora. Non era amore, aveva bisogno di me. Io non avevo bisogno di lui. Io l'amavo.