Mi chiamò il direttore: << Giosuè Corelli >>, disse << raggiungimi nel mio ufficio che devo parlarti >>.
Così spensi la macchina alla quale stavo lavorando e lo raggiunsi.
<< Senti >> mi disse << Oggi ti scade il contratto, giusto? >>
<< Si >> risposi.
<< Bé, vedi, mi tocca non rinnovartelo. Purtroppo c'è stato un improvviso calo della produzione e già dai prossimi giorni, non saprei più come impiegarti >>, concluse.
Così terminai la giornata lavorativa, tornai a casa, mi feci una doccia, bevvi qualcosa e andai a dormire. Era da due anni e mezzo che sgobbavo in quella fabbrica di cioccolatini e sempre con contratti a termine. Bé, sia come sia, non mi dispiacque più di tanto avere perso quell'impiego noioso e monotono, solo che, visti i tempi che il paese stava attraversando e i miei 35 anni, mi rendevo conto che sarebbe stato difficile riuscire a trovarne un altro e che una volta terminati i risparmi, non avrei più saputo come pagarmi l'affitto che ammontava a 400 euro al mese. Due giorni dopo mi recai all'INPS e feci domanda per la disoccupazione ordinaria. Mi spiegarono l'iter, le pratiche da sbrigare e mi dissero che se la domanda fosse stata accolta, mi sarebbe giunta comunicazione a casa, che mi avrebbero coperto otto mesi, sei dei quali pagati all'ottanta per cento di quello che guadagnavo lavorando in fabbrica e gli ultimi due, pagati al sessanta. La mia paga era di mille euro e quindi ne avrei percepiti, i primi sei mesi ottocento e gli ultimi due, seicento. Il primo assegno mi sarebbe arrivato dopo circa un paio di mesi e avrebbe coperto anche il mese arretrato. Facendomi due calcoli, pensai che non fosse un grosso problema aspettare due mesi, avevo qualcosa da parte ed ero in attesa dell'ultimo stipendio e della liquidazione da parte della ditta. Prima di congedarmi dagli uffici mi raccomandarono, nel caso in cui fossi riuscito a trovare un nuovo impiego, di comunicarglielo immediatamente e che in quel caso mi avrebbero pagato solo il periodo effettivo in cui non avevo lavorato. Così avevo otto mesi di tempo per trovarmi un nuovo lavoro, scaduti i quali, sarei stato costretto a tornare da mia madre. Decisi di non pensarci più di tanto. La mattina avevo preso l'abitudine di svegliarmi alle undici, mi preparavo un caffè, andavo al bagno e dopo esserne uscito, mi mettevo davanti al computer a cercare offerte di lavoro, a cercare di scrivere racconti e a cazzeggiare fino alle due o alle tre del pomeriggio. Dopo mi vestivo, uscivo e con i curriculum cartacei alla mano, iniziavo a farmi i giri delle agenzie interinali. Era tutto un: << Corelli, le faremo sapere >>.
Ormai vivevo alla giornata. Ogni volta che entravo in quelle cazzo di agenzie, mi squadravano dalla testa ai piedi e io li a sorridere come un idiota per cercare di dare una buona impressione mentre dentro esplodevo. Mi sembrava quasi di chiedere l'elemosina, o perlomeno è così che mi facevano sentire ogni volta che uscivo da quegli uffici. Pensavo “ Me ne sono girate una decina... se qualcosa c'è mi chiameranno”, così smisi di fare quei giri e continuai a cercare lavoro online. La sera passavo da un mini market vicino casa, compravo tre o quattro birre, me le scolavo ascoltando musica, uscivo, girovagavo per le strade, rientravo a notte fonda, cercavo buone idee da sviluppare per la stesura dei miei racconti e mi dicevo che se ci fossi riuscito, avrei potuto risolvere una buona parte dei miei guai. D'altra parte sognare non ha mai fatto male a nessuno, a patto che non ci si ancori nel sogno chiudendosi in una sorta di autismo e si smetta di vivere il reale, cosa che, con tutte le scadenze che avevo, non poteva certo succedermi. Ormai avevo smesso di lavorare da circa
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dieci giorni e di nuove prospettive lavorative all'orizzonte, non c'era traccia. Mi annoiavo a morte e non riuscivo a scrivere. Il foglio restava immutabilmente bianco, mi sentivo come svuotato, un po' depresso e senza l'ombra di nessuno accanto.
Una sera uscii e decisi di recarmi in un locale dove facevano del karaoke. Era da un paio d'anni che non ci mettevo piede dentro e le cose da allora non sembravano cambiate. La disposizione dei tavoli era immutata e proprio come un tempo, era stato allestito un buffet da cui si poteva attingere liberamente, solo dopo aver preso d'obbligo la prima consumazione. Anche la scelta degli alimenti disposti nei piatti era la stessa ed ebbi come la sensazione che quella tavola da allora non fosse mai stata sparecchiata. Mi recai al bancone e ordinai una birra media. La barista mi riconobbe e mi salutò. Affianco al bancone, chiusa ad angolo, c'erano una piccola consolle e un computer di cui il proprietario del locale si serviva per mettere su le basi musicali sopra cui i clienti avrebbero cantato. Lo salutai, presi un foglio, scrissi il titolo di qualche canzone e mi andai a sedere ad un tavolo. Non c'era molta gente, solo una compagnia di tre ragazzi e quattro ragazze di circa vent'anni e una coppietta che in quel momento stava cantando “ Acqua e Sale” di Mina e Celentano. Scolai la prima birra, ne presi un'altra e tornai a sedere. Non mi ero mai recato solo in quel posto e mi sentivo fuori luogo. Di solito lo frequentavo con un amico che nel tempo persi di vista. Con lui stavo bene, me ne fregavo di tutto e generalmente non facevo caso agli altri avventori, ma in quella situazione, trovandomi solo ed essendo il locale sviluppato in un'unica sala, mi riusciva difficile non fare caso a quei giovani chiassosi che non la smettevano di fare i galli nel pollaio e di conseguenza, mi sentivo ancora più solo e desideroso di andarmene altrove. Un attimo dopo aver avuto quei pensieri partì la mia base, presi il microfono e attaccai “ Vivere non è facile” di Vasco Rossi. Non avevo una brutta voce e non mi ritenevo nemmeno stonato, solo che il troppo fumo e il troppo alcool me l'avevano un po' rovinata e così non riuscivo più come una volta a prendere tonalità molto alte. Terminata la canzone finii di bere la seconda birra, mi diressi verso la consolle e feci cenno al proprietario di andarmene. Lui mi fermò e mi chiese di restare.
<< Ci sono solo ragazzini qua dentro, mi sento un po' a disagio >> gli dissi, ma lui non mi stette a sentire e fece partire la base di un'altra canzone di Vasco che avevo scritto sul foglio: “ Prendi la strada”. Attaccai a cantare. Verso la metà del pezzo vidi entrare Natalia, una ragazza di origini spagnole che avevo conosciuto lì nelle mie passate frequentazioni. A pelle mi era sempre stata simpatica e penso che anch'io lo fossi per lei. Mi guardò, sorrise e andò a sedersi ad un tavolo. Terminata la canzone andai a salutarla. Era una bella donna, sui quaranta, alta circa un metro e sessantacinque, pelle olivastra, lunghi capelli scuri che lasciava ricadere sulle spalle scoperte, occhi castani, lineamenti graziosi, labbra carnose, il naso piccolo, non molto seno e un gran bel sedere. Indossava un vestito nero corto, delle calze color carne e un grazioso paio di scarpette con un po' di tacco, anch'esse nere.
<< Giosuè! Che bello rivederti. Com'è che non ti sei più fatto vedere da queste parti? >> mi chiese.
<< La vita mi ha portato altrove >>, risposi.
<< Capisco. Come stai? >>
<< Bene. E tu? >>
<< Bene >>.
<< Vuoi qualcosa da bere? >>
<< Si, un calice di vino, grazie >>.
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Feci cenno alla barista di venire al tavolo e le chiesi di portarci una bottiglia di Morellino di Scansano. Riempii a metà il calice di Natalia e feci lo stesso con il mio.
Brindammo al nostro incontro. Il bello di stare lì con lei, pensavo, stava nel fatto che, a parte l'esserci chiesti come stavamo, nessuno dei due aveva posto all'altro domande sul lavoro o su cosa facessimo per tirare a campare; ci godevamo semplicemente il momento cercando di gustarci la serata e visto che le cose ultimamente per me non andavano per il verso giusto, quella situazione mi era congeniale. Se mi avesse chiesto qualcosa a riguardo del lavoro, della vita o di come passassi le giornate, mi sarei sentito a disagio e messo sotto pressione. Forse anche per lei era lo stesso, non lo so, ma a quel punto non aveva nessuna importanza. Mi sentivo bene come non mi succedeva da un po' e d'improvviso, il baccano generato dalla compagnia di ragazzi seduta a due tavoli di distanza dal nostro, era solo un'eco lontano. Vuotammo i calici, ne riempii altri due e uscimmo fuori a fumare.
<< Senti >>, disse << la ragazza con cui divido l'appartamento starà via fino a domani sera, se ti va più tardi puoi venire da me >>.
<< Molto volentieri >>, risposi, senza stare a pensarci due volte.
Rientrammo nel locale e seguitammo a bere senza parlarci, riempendo quei silenzi con occhiate d'intesa e sorrisi. Mi appoggiò la testa su una spalla poi la rialzò e avvicino le labbra al mio orecchio, sussurrandomi: << Andiamo? >> così saldai il conto, uscimmo e ci dirigemmo verso casa. Abitava ad un paio di isolati dal locale in un edificio di sei piani. Lei stava al secondo. Arrivammo nell'arco di dieci minuti, salimmo le scale e una volta dentro, mi guardai attorno.
<< Non fare caso a tutti gli scatoloni sparsi per casa, stiamo traslocando >> disse.
Sentii qualcosa che mi si strusciava ai piedi, abbassai lo sguardo e vidi un bellissimo siamese con gli occhi azzurri che faceva le fusa.
<< Oh... quello è Bullo, il gatto della mia coinquilina. Ti disturba? >>
<< No, anche mia madre ha un gatto >>.
<< Io vado a sciacquarmi. Mettiti comodo >>.
<< Hai qualcosa da bere? >>
<< Dev'esserci della birra in frigo >>.
<< Bene, stasera si mescola >>.
<< Cosa? >>
<< No, niente, dicevo che stasera mescolo la birra col vino >>.
Mi diressi in cucina, aprii il frigo, c'erano due confezioni da sei di Ceres, ne aprii una e andai a sedermi sul divano in soggiorno in attesa che Natalia uscisse dal bagno. A
parte un televisore, uno stereo, qualche libro sparso qua e là, la cucina, un tavolo, delle pentole, il frigo, il divano e Bullo che si faceva le unghie su un tappetino, non c'era altro da vedere. Natalia uscì dal bagno, prese una birra e venne a sedersi accanto a me.
<< Sembra proprio che siate a buon punto con il trasloco >>, dissi.
<< Oh, si, abbiamo quasi finito. Dovremo lasciare l'appartamento fra due settimane. Abbiamo tenuto fuori dalle scatole giusto l'indispensabile >>.
<< Come farete con la cucina, il frigo e il divano? >>
<< Quelle cose, come anche i letti, gli armadi, le cassettiere in camera e la lavatrice in bagno, sono del proprietario di casa >>.
<< Per trasferire i vostri oggetti nel nuovo alloggio come siete organizzate? Se avete bisogno di aiuto io sono disponibile >>.
<< C'è un nostro amico che è poi l'ex di Vanessa, la mia coinquilina, che ha un furgone
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abbastanza capiente, ci aiuterà lui. Comunque grazie lo stesso per la tua disponibilità >>.
Mi accesi una sigaretta senza pensare a niente, appoggiai la testa sulla parte alta dello schienale del divano e soffiai il fumo verso il soffitto. Natalia mise su un cd di musica celtica tenuto a basso volume. L'atmosfera era rilassante. Mi girai verso di lei che nel frattempo mi si era riseduta accanto, le sorrisi e avvicinai il mio viso al suo. Le nostre labbra si sfiorarono, le bocche si schiusero e le lingue si incrociarono. Fu un lungo bacio, caldo, passionale, di quelli che ti fanno scordare le bruttezze della vita e ti catapultano in una dimensione in cui più nulla può ferire perché più nulla esiste ad eccezione delle anime che stanno per congiungersi. Scesi a baciarle il collo, le spalle, le braccia, le mani, la girai di schiena, le tirai giù tre quarti di zip, le feci ricadere la parte alta del vestito sulla vita, le succhiai i lobi delle orecchie e le sganciai il reggiseno. Si girò verso di me, mi sbottonò la camicia, mi baciò il petto e dopo circa un minuto cominciò a leccarmi l'addome scendendo verso la patta dei pantaloni. Ero molto eccitato e in quel momento mi parve che le dodici fatiche di Ercole fossero una passeggiata che avrei potuto affrontare in un battere d'occhio. Natalia si alzò lasciandomi lì seduto con la camicia aperta e il membro in fiamme. Si tolse le scarpe, sfilò calze e mutandine lasciandosi attorno ai fianchi il vestito, si voltò dandomi le spalle, si piegò un po' in avanti e cominciò a strusciarmi addosso le natiche parzialmente coperte dall'orlo dell'abito, ricordandomi alcuni di quei movimenti praticati dalle ballerine di lap dance, per fare eccitare gli uomini. Dopo qualche minuto si girò e s'inginocchiò fra le mie gambe, mi accarezzò il petto, l'addome, mi sbottonò i pantaloni, me li sfilò, mi tolse i boxer e iniziò a farmi del sesso orale. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare da quel turbinio di magiche sensazioni che certe situazioni comportano. Natalia ci sapeva fare. Lo lavorò di mano e lo leccò in tutta la sua lunghezza, testicoli inclusi, si fermò alla base del glande, dalla parte del filetto e in quella zona mosse sapientemente la lingua, dopodiché, prese a succhiarlo con enfasi procurandomi una libidine che sentii salire fino alle vette più alte del piacere. Ripeté il giochetto un po' di volte e quando constatò che il pene ormai era più duro del marmo, si alzò, finì di togliersi l'abito appeso in vita, mi si sedette sopra
dandomi la schiena, lo indirizzò verso la sua apertura e si fece penetrare. Ce l'aveva stretta. Il massimo che potessi desiderare. Il pene aderiva perfettamente alle pareti interne della vulva come un guanto della giusta taglia ad una mano. Andammo avanti così per un po'. Erano almeno sei mesi che non lo facevo e non volevo che finisse presto. Quando sentii che stavo per venire glielo tolsi e attesi qualche istante, giusto il tempo di far passare lo stimolo, poi la feci sdraiare su un fianco, mi sistemai dietro, le divaricai le gambe e glielo rinfilai. Si stava bene là dentro e in quel momento non potevo chiedere di meglio. Glielo infilavo tutto, lo toglievo, lo rinfilavo, restavo fermo qualche istante e poi prendevo a farlo oscillare nel suo mare, dopodiché, ricominciavo a pompare lentamente e poi sempre più forte, ma questa volta senza toglierlo un istante. Mentre seguitavo nella penetrazione, Natalia, con i polpastrelli delle dita prese ad accarezzarsi la clitoride. Ansimò, si bagnò tutta, mi guardò e disse: << Prendimi a pecora >>; così la feci sistemare nella posizione richiesta, ripresi a darmi da fare e infine, non riuscendo più a trattenermi, lo tolsi e le venni sulla schiena e nei glutei. Natalia si girò e me lo pulì con la bocca, dopodiché, andò in bagno a farsi una doccia. Mi rivestii, spensi lo stereo, tornai sul divano e accesi una sigaretta ripensando a quanto appena fatto. La mia autostima che in quei giorni dire ch'era a terra è dire poco, aveva riacquistato molti punti e in quel momento ero convinto di poter riuscire a divincolarmi da ogni situazione di stallo presente o futura nella quale ogni tanto si finisce. Mi sentivo carico, forte come un leone e desideroso di farmi un'altra cavalcata. Attesi che Natalia uscisse dal
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bagno. Entrò in soggiorno con addosso un accappatoio rosa e si sedette sul divano. Mi avvicinai e presi a baciarle il collo ma quando capì le mie intenzioni mi fermò, dicendo:
<< Giosuè, sei insaziabile. Rimandiamo a un'altra volta >>.
<< Dove andrai a stare? >> le chiesi.
<< Per il momento a Parigi, a casa di un'amica... poi si vedrà >>.
<< Bé, allora non abbiamo molto tempo da perdere >> dissi, tornando a baciarle il collo.
<< Ti ricordo che me ne andrò fra due settimane e quindi volendo il tempo per stare assieme lo possiamo trovare >>.
<< D'accordo, come vuoi. Posso restare a dormire qui stanotte? >>
<< Certo, ma sul divano. In camera mia c'è troppo disordine... buonanotte >> e senza darmi possibilità di risposta, andò a chiudersi nella sua stanza.
Mi tornai a togliere i pantaloni, li appoggiai sul tavolo in cucina, presi un'altra birra dal frigo e in boxer e camicia, andai a stendermi sul divano. Finii la birra e mi addormentai sereno. L'indomani mi svegliai a mezzogiorno un po' rincoglionito per via dei postumi. Mi alzai e andai in bagno a urinare. Uscito dal bagno mi guardai attorno e mi accorsi che Natalia non c'era. “ Starà ancora dormendo” pensai e cercando di non fare troppo rumore, mi diressi in cucina a preparare un caffè. Nel frattempo il tempo scorreva. Tornai in bagno a defecare, mi lavai, uscii dal bagno, presi una rivista appoggiata su uno scatolone, mi andai a sedere sul divano e la sfogliai senza interesse. Vidi Bullo uscire dalla finestra del soggiorno e lanciarsi su un'impalcatura che avevano montato per fare dei lavori alla facciata dell'edificio. Dopo circa una mezz'oretta tornai in cucina a bere un bicchiere d'acqua. Alzai la testa e vidi un bigliettino attaccato al freezer con una calamita che la sera prima non c'era. Lo staccai e ne lessi il contenuto:
<< Caro Giosuè, stanotte sono proprio stata bene con te. Sono dovuta uscire presto stamattina. Tu dormivi profondamente e mi sembrava un peccato svegliarti. Ho preso dal tuo portafoglio cento euro. La mia tariffa in realtà è di duecento a notte ma non ti preoccupare e soprattutto non sentirti in debito, siamo apposto così. Se ti va di rincontrarci, questo è il mio numero: 347............., baci, Natalia >>.
Non riuscivo a credere a quello che avevo appena letto. Pensai fosse uno scherzo, una goliardata. Recuperai i pantaloni dal tavolo in cucina, li indossai, presi il portafoglio e guardai in tutti gli scomparti: sei euro e ottanta centesimi, questo è quanto era rimasto. Ero molto arrabbiato. Corsi verso la sua camera. Era chiusa a chiave. Pensai di attendere il suo ritorno ma sapevo che verso sera la sua coinquilina sarebbe tornata e non avevo nessuna voglia di farmi trovare lì, così decisi che avrei aspettato fino alle cinque del pomeriggio, dopodiché, me ne sarei andato. Verso le quattro Bullo rientrò dalla finestra da cui era uscito, mi si strusciò alle caviglie, fece un giro della casa e si addormentò ai piedi del divano. Alle cinque, di Natalia non c'era traccia, attesi ancora un po', strappai il biglietto e infine uscii avvilito.
“Eccolo il leone della savana” pensai “ il grande amatore che se ne torna a casa con una mano davanti e l'altra di dietro... che inculata”.
Passai due giorni chiuso in casa senza fare niente. Ero un po' depresso. Natalia era stata furba a non farmi capire le sue vere intenzioni e, pur sapendo di non avere nessuna colpa, mi sentivo un idiota. Ma cosa avrei dovuto fare? Dormire con il portafogli attaccato all'uccello? Probabilmente il compenso alla sua prestazione me lo avrebbe chiesto lo stesso, ma in quel caso ci sarebbe stato da ridere. Mi aveva usato e fine della storia. Ripensai ad alcune delle parole scritte su quel dannato foglietto: << soprattutto non sentirti in debito... se ti va di
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rincontrarci, questo è il mio numero >> e mi domandavo con quale coraggio avesse osato chiedermi se avevo voglia di rivederla. Ci voleva proprio una bella faccia tosta e poi, mi sarei dovuto sentire in debito per cosa? Per essermi fatto prendere in giro? Decisi di lasciarmi tutto alle spalle e di non pensarci più.
Tornai a cercarmi lavoro online e a provare a scrivere qualcosa. Il mio umore era di nuovo sotto ai piedi o meglio, giù in cantina. Mi guardavo allo specchio e ciò che vedevo non mi piaceva. Ero tornato ad essere il solito uomo insicuro di sempre. Non riuscivo a scrivere un fico secco, di proposte lavorative non c'era l'ombra e intanto i primi due mesi da disoccupato, scorsero senza che accadesse niente di particolare. Una sera, mentre mi accingevo a uscire per comprarmi delle birre, notai nella buchetta della posta una busta dell'INPS. Finalmente la prima bella notizia da sessanta giorni a questa parte: avevano accettato la domanda di disoccupazione e di lì a qualche giorno, sarei potuto andare in posta ad incassare il denaro. Il problema adesso era un altro. Dal momento che mancavano solo sei mesi prima di ricevere l'ultimo assegno da parte dell'INPS, dovevo comunicare al proprietario di casa (che era il padre di un mio vecchio compagno di classe), la mia intenzione di lasciare l'alloggio per giustificata causa. Prima di inviargli una lettera a raccomandata con ricevuta di ritorno, decisi di telefonargli.
<< Ciao Luca, sono Giosuè >>.
<< Ciao carissimo, dimmi tutto >>.
<< Purtroppo ho perso il lavoro. Ora sto percependo l'assegno di disoccupazione, ma fra sei mesi non saprei più come pagarti l'affitto. Domani stesso ti scriverò la lettera di preavviso e fra qualche giorno andrò in posta a spedirla >>.
<< Oh, mi dispiace... e come è successo? >>.
<< C'è stato un calo della produzione >>.
<< Capisco... >>.
<< Senti, volevo chiederti una cosa... >>.
<< Ti ascolto >>.
<< Se in questi sei mesi dovessi riuscire a trovare un altro lavoro, potresti non prendere in considerazione la lettera di preavviso e farmi restare? >>
<< Ma certamente. Ti basterà comunicarmelo con una telefonata >>.
<< Grazie Luca >>.
<< Di niente. Stai tranquillo >>.
<< Ci sentiamo >>.
<< A presto >>.
Dopo aver riattaccato pensai che non fosse ancora tutto perduto e anche se per natura ero dubbioso, diffidente e alle volte pessimista, non era certo mia intenzione tirare il collo alla speranza, così, lasciavo che svolazzasse per le stanze della casa come un simbolo di presagio di un domani meno cupo. Aspettai che passassero tre giorni, il tempo necessario che dovetti lasciar trascorrere prima di poter incassare i soldi, dopodiché, presi la lettera di preavviso da spedire a Luca, mi recai in posta, sbrigai la faccenda e intascai il denaro che mi spettava. Dopo un altro po' di giorni trascorsi come sempre a cazzeggiare o a cercar lavoro al computer, una sera mi arrivò una telefonata. Il telefono era da un po' di tempo che non squillava e il sentirlo squillare mi fece saltare dalla sedia. Risposi.
<< Ciao Giosuè, sono Piero, come va? >> Piero era il figlio di Luca.
<< Abbastanza bene, grazie >>.
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<< Senti, mio padre mi ha raccontato tutto. Se vuoi, ho da proporti qualcosa >>.
<< Di cosa si tratta? >>
<< Preferisco parlartene a quattrocchi. Quando posso passare? >>
<< Per me anche subito >>.
<< Ok, ci vediamo tra mezz'ora >> e riagganciò.
Arrivò dopo circa quaranta minuti, suonò il campanello, aprii e lo feci entrare.
<< Bé, non ti vedo male tutto sommato >> disse.
<< No, tutto sommato me la cavo >>.
C'è da dire che Piero (di professione agente immobiliare), oltre ad essere il figlio del mio proprietario di casa ed ex compagno di classe, era innanzi tutto un amico, un buon compagno di scorribande notturne, stavamo bene anche solo a parlare ore e ore seduti su una panchina sorseggiando vino, confidandoci ansie, desideri, paure, segreti ed è con lui che fino ad un paio di anni prima andavo al karaoke; all'epoca cercavo un alloggio e mi propose quello in cui vivevo. Col tempo smettemmo di frequentarci perché stava per sposarsi e la sua futura moglie aspettava una figlia, poi si sa come vanno certe cose e fra una cosa e l'altra può accadere che ci si perda di vista, nonostante la stima, il rispetto e i ricordi rimangano inalterati, tutto qui. Ripensando ai giorni trascorsi assieme sui banchi di scuola, devo dire che l'aspetto di Piero a differenza del mio, non era cambiato molto, aveva solo qualche ruga in più, l'espressione di un uomo adulto e vestiva con più ricercatezza ma oltre a questo era immutato, come immutati erano i lunghi capelli ricci che portava da due decenni legati a coda di cavallo.
<< Siediti, vado a prenderti una birra >>, dissi.
<< Non mi fermo molto... giusto il tempo di dirti quello che devo >>.
<< Ok, allora niente birra? >>
<< No niente birra, grazie >>. Rimase in silenzio qualche secondo, si accese una sigaretta, diede una bella boccata, soffiò il fumo verso l'alto e iniziò a parlare: << Ascolta, ho un lavoretto da proporti. Sono sei ore la settimana. Dovresti scaricare cassette di frutta e verdura al mercato >>.
<< E il mio compenso a quanto ammonterebbe? >>
<< Prenderesti trecentosessanta euro al mese, che sono poi quindici euro l'ora >>.
<< Senti Piero, la paga non è male ma adesso con la disoccupazione ne prendo ottocento. All'Inps mi hanno detto, nel caso in cui trovassi un lavoro di comunicarglielo e se accettassi la tua proposta non vorrei rischiare di perderne quattrocentoquaranta. Ora, non so bene come funzioni, se con un lavoretto da sei ore la settimana, possa lo stesso continuare a beneficiare dell'assegno di disoccupazione o meno. Devo informarmi >>.
<< Non c'è bisogno che ti informi di nulla. Delle due andrai ad arrotondare. È un lavoro in nero e quindi non devi comunicare niente a nessuno >>.
<< Capisco. Dammi un po' di tempo per rifletterci su >>.
<< D'accordo. Ti telefono fra un paio di giorni >>, concluse, mi diede una pacca sulla spalla e se ne andò.
Se avessi accettato l'offerta di Piero sarei arrivato a prendere millecentosessanta euro al mese. Ovviamente la prospettiva era allettante. Sapevo che lavorare in nero significava violare le regole statali, non versare i contributi, evadere le tasse da parte del lavoratore e del datore di lavoro che fra l'altro non registrandomi avrebbe risparmiato un bel po' di quattrini, che se mi fossi fatto male non avrei avuto alcuna tutela... ma non era questo a preoccuparmi. L'unico timore che avevo era quello che mi beccassero e di finire nei guai.
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Del resto non mi facevo scrupoli. Dovevo cercare di tirare acqua al mio mulino e dal momento che nonostante tutti i curriculum inviati, nessuno si faceva sentire, pensai di non avere alternative. Non avevo altre prospettive lavorative e avevo bisogno di mettere da parte dei soldi perché se non avessi trovato un altro impiego, nel giro di poco tempo mi sarei ritrovato senza uno spicciolo in tasca. Non me ne fregava niente della morale e del buon senso del paese e del resto al paese cosa volete che gli importasse di me? Sapevo che pagare le tasse era importante per il bene dello stato che forniva servizi al cittadino e blablablabla, ma stavo vivendo un periodo di grandi incertezze, il futuro era nebuloso e pensai che passati gli otto mesi di disoccupazione che nel frattempo erano diventati sei, per il paese potevo anche morire di fame in un vicolo puzzolente. Tutto questo era molto triste e ingiusto, d'accordo, ma cosa avrei dovuto fare a trentacinque anni suonati, una volta terminato il denaro e smessi gli assegni? Tornare a casa di mia madre (casalinga con un marito pensionato), a farmi mantenere? Almeno così, anche se costretto a tornare, avrei potuto provvedere a me stesso senza gravare sul groppone di nessuno. Penso che per “ loro”, con il portafogli bello gonfio e sempre pronti a battibeccarsi nei salotti televisivi, fosse molto semplice dire: << Questo è giusto o quello è sbagliato >> oppure cose del tipo: << In questo modo si affossa lo stato >>, ma non era anche ingiusto che i politici vantassero privilegi intoccabili, da Dei dell'olimpo o che certi esponenti di alcuni movimenti si mangiassero i soldi dei partiti, mentre un singolo cittadino qualunque si ritrovava immerso nel fango dopo avere lavorato onestamente e in regola per anni in un'azienda che a causa della crisi lo aveva liquidato? Sarà retorico porsi queste domande, ma se lo stato non forniva alternative, bisognava in un qualche modo crearsele. Non potevo prevedere il futuro. Poteva anche darsi che nell'arco di poco tempo mi chiamassero per un lavoro in regola e in quel caso avrei pagato le tasse, ma visto che in quel momento non si vedeva nulla all'orizzonte, decisi di accettare l'offerta e di svolgerla almeno fino a quando le cose non fossero migliorate. Non avevo voglia di aspettare due giorni per ricevere la telefonata di Piero. L'indomani, verso mezzogiorno lo chiamai.
<< Ciao, sono Giosuè >>.
<< Ciao... hai deciso? >>
<< Si, accetto l'offerta, solo che c'è una cosa di cui preferirei non parlare al telefono >>.
<< Va bene, passo da te stasera verso le sette >>.
<< Ok. Grazie >>.
<< Figurati >> e agganciammo.
Piero arrivò puntuale, suonò il campanello e lo feci entrare.
<< Di cos'è che volevi parlarmi? >> domandò.
<< Temo i controlli che potrebbero fare e che mi becchino >>.
<< Capisco ma non devi preoccuparti. Controlli di questo genere lì non capitano quasi mai e poi anche se dovesse accadere, non so come ma si viene a sapere prima, arriva la soffiata insomma e in quel caso avresti il tempo di andartene. Che io sappia è successo quattro volte negli ultimi tre anni e non hanno mai beccato nessuno. Tu lavorerai lì sei ore la settimana e quindi la percentuale che questo possa accadere proprio in quelle ore, si abbassa ulteriormente. Fai bene a metterlo in conto ma stai sereno che il rischio è minimo >>.
<< E se decidono di fare un controllo mirato proprio nelle ore di scarico? >>
<< Di solito sono vaghi, vengono, fanno un giro e se ne vanno e comunque, come ti ho già detto, si viene a sapere prima >>.
<< Quando dovrei cominciare? >>
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<< Questo dipende da te. A me basta fare una telefonata. Se mi dai l'ok, penso anche domani >>.
Diedi l'ok a Piero che seduta stante telefonò alla persona per cui avrei dovuto
lavorare. Mise il viva voce. Sentii squillare il telefono e poco dopo rispondere.
<< Sii... >>.
<< Ciao Pasquale, sono Piero, disturbo? >>
<< No, dimmi pure >>.
<< Sono qui con Giosuè, l'amico di cui ti ho parlato. Lui è disponibile. Quando posso mandartelo? >>
<< L'orario dello scarico merci è dalle otto e mezza alle dieci e mezza. Mandamelo domani alle otto e un quarto >>.
<< Va bene, ci sentiamo >>.
<< Ciao >> e attaccarono, dopodiché, Piero mi spiegò a quale mercato recarmi, mi salutò e se ne andò.
Il giorno dopo, puntuale, mi recai a lavoro e chiesi di Pasquale. Mi indicarono un uomo sui cinquantacinque anni, alto circa un metro e settantacinque, calvo e grasso.
Mi avvicinai.
<< Pasquale? >> chiesi.
<< Si, sono io >>, rispose. Aveva l'alito terribile, come se avesse mangiato merda a colazione.
<< Buongiorno, sono Giosuè Corelli >>.
<< Ah, buongiorno, ti stavo aspettando. Seguimi >>.
Mi portò dall'altra parte del mercato, in una piazzola dove si effettuava lo scarico merci.
<< Allora, quello che devi fare è scaricare dai furgoni le cassette di frutta e verdura, caricarle sul carrello, portarle dentro e sistemarle sui banchi che ti indicherò, tutto chiaro? >>
<< Si >>.
<< E allora vai, comincia >>.
Cominciai e quasi senza rendermene conto finii. Due ore di lavoro volano. Scaricai due furgoncini, trasportai la merce all'interno del mercato e una volta individuati i banchi da allestire, sistemai le cassette nel modo in cui volevano i venditori. Poco dopo Pasquale mi venne incontro e mi disse di seguirlo. Andammo in un bar difronte all'ingresso principale, mi offrì un caffè, ci scambiammo i numeri di telefono e mi pagò all'istante i trenta euro.
<< Senti >> disse << lo scarico merci si effettua il Lunedì, Il Mercoledì e il Venerdì dalle otto e mezza alle dieci e mezza. Oggi è Mercoledì, giusto? >>
<< Si >>.
<< Bene, ci vediamo Venerdì >>.
<< D'accordo >> e me ne andai.
Giunto a casa, tornai a dormire e mi svegliai alle tre del pomeriggio. Verso sera Piero
mi chiamò per chiedermi come fosse andata.
<< Tutto bene >> risposi, poi gli spiegai il lavoro svolto e gli chiesi:
<< Come hai conosciuto Pasquale? >>
<< È un vecchio amico di mio padre >>.
<< Senti, ma allora è stato Luca a propormi a lui? >>
<< No, ho fatto tutto di testa mia. L'ho chiamato e gli ho chiesto se aveva bisogno di qualcuno. A papà non sarebbe andato bene farti lavorare in nero, quindi se ti dovesse
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capitare di sentirlo, non dirgli niente, mi raccomando >>.
<< Va bene, ma me lo dici solo adesso? Non hai pensato che avrei potuto sentirlo in questi giorni? >>
<< No, non ci ho pensato >>.
<< Ok, ma visto che sono amici, non potrebbe dirglielo Pasquale? >>
<< Mamma mia Giosuè quante domande! Comunque la risposta è no. Anch'io prima di fare l'agente immobiliare ho lavorato in nero per Pasquale senza che Luca sapesse niente e lui sa che certe cose a mio padre non vanno dette; inoltre, a Pasquale non ho detto nulla della vostra conoscenza. Ora devo lasciarti, la bambina sta piangendo >>.
<< Si, la sento, ciao >>.
<< A presto >>.
Ormai erano passati più di due mesi dall'incontro con Natalia e anche se la storia di una notte avuta con lei era stata accantonata da un pezzo, una mattina, dopo averla sognata (da allora non mi era mai successo di sognarla), mi svegliai turbato. La sognai fare sesso con tre ragazzi di etnie diverse: un africano, un caucasico e un asiatico. Il caucasico ero io. Ci davamo dentro a più non posso, senza l'uso di contraccettivi, lei era assatanata, c'erano fiamme attorno e faceva un gran caldo. Le venimmo addosso dappertutto e lo sperma le colò lungo il corpo come lava a valle. All'improvviso cambiò scenario e mi ritrovai in un ospedale in un punto di prelievo a fare degli esami del sangue. Gli infermieri avevano volti infernali, mi guardavano e ridevano. Uno di loro, senza fare troppi complimenti, mi prese per un braccio e trascinò s'uno sgabello, mi strappò la manica destra della camicia, mi fece poggiare l'arto su un tavolo, mi legò stretto un laccio emostatico al bicipite e m'infilò un ago nella vena procurandomi dolore. Ci fu un altro cambio di scenario. Ero seduto su una panchina assieme agli altri due ragazzi, l'africano e l'asiatico di cui non conoscevo i nomi. Stringevamo fra le mani gli esiti degli esami del sangue e temevamo di guardarne il contenuto. Contammo fino a tre e aprimmo le buste. In ogni foglio era scritto: esame dell'HIV positivo. Innanzi a noi comparve e dopo una decina di secondi scomparve, il volto ingigantito e sghignazzante di Natalia. I due ragazzi mi si volatilizzarono sotto al naso e ne persi le tracce definitivamente. Ci fu un ultimo cambio di scenario. Il tempo passava e presi l'AIDS. Girovagavo affranto per alcune strade di montagna, perso in una tempesta di neve che sembrava non voler cessare. Ero debole, malato, con le difese immunitarie di un uomo più morto che vivo, stavo stramazzando al suolo e.... a quel punto mi svegliai tirando un urlo, mi sedetti sul letto e sospirai. Quella mattina non dovevo lavorare e quindi me la presi comoda. Mi ci volle un po' prima di riprendermi, non riuscivo a togliermi dalla mente l'incubo. Per un attimo credetti che si trattasse di un sogno premonitore, poi scacciai dalla testa quell'idea assurda. Pensai di essere stato un cretino a fare sesso non protetto con Natalia e, a causa della mia idiozia, il timore e la paranoia generati da quell'incubo, erano il prezzo che stavo pagando per la superficialità avuta con lei quella notte. Di solito nei rapporti occasionali mettevo sempre il preservativo, ma con Natalia non pensavo ce ne fosse bisogno, mi ispirava fiducia e mai, fino al ritrovamento del biglietto affisso al freezer, avrei creduto si trattasse di una prostituta o comunque di una donna che va con molti uomini. Alla fine della storia, però, più che con lei ce l'avevo con me stesso. In fondo non la conoscevo bene. L'avevo vista solo qualche volta al karaoke e niente più. Non vedevo l'ora che passasse il terzo mese da quel dannato incontro per fare il test dell'HIV e togliermi di dosso ogni dubbio. Non avendo avuto perdite di nessun tipo, né pus, uretriti o dolori alla
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minzione, esclusi di fare quello sulla gonorrea che sapevo avere un periodo di incubazione di una o due settimane, ma dal momento ch'ero in ballo, pensai di fare quello sulla sifilide che dal contagio, avevo letto da qualche parte, aveva periodi di incubazione asintomatica che potevano oscillare dalle tre settimane fino addirittura a cinquanta- settanta giorni. Da quella notte se non erano passati settanta giorni, poco ci mancava e fortunatamente non avevo sintomi di nessun genere ma ciononostante, non mi sentivo tranquillo. Quel dannato incubo mi aveva un po' destabilizzato e, anche se dopo l'incontro avuto con Natalia, avevo ovviamente deciso di farmi fare dei controlli, riuscivo a non pensarci, ora invece il doverli fare, forse sarà esagerato, ma stava diventando una sorta di chiodo fisso, di ossessione che riuscivo a togliermi dalla testa solo quando lavoravo, ovvero, quelle poche ore la settimana. Andai immediatamente dal mio medico, gli spiegai la situazione e gli dissi che non volevo attendere oltre per fare gli esami sulla sifilide. Mi disse che potevo fare subito anche quello sull'HIV, in modo tale da poter escludere un eventuale contagio magari avvenuto prima della notte passata con la ragazza. Gli risposi che prima di quella notte ero sicuro di non aver corso mai alcun rischio e che preferivo aspettare per avere una diagnosi definitiva.
Disse: << D'accordo Corelli, faccia come crede >>.
Nell'impegnativa relativa alla sifilide, scrisse che dovevo fare dei test non treponemici, quali il VDRL e l'RPR, gli chiesi di cosa si trattasse e mi disse che erano analisi del sangue. Al CUP mi fissarono l'appuntamento di lì a quindici giorni. Nelle notti successive non feci più sogni del genere e questo mi fece stare un po' meglio.
Attendevo impaziente che le due settimane passassero, alternando alle poche ore di lavoro, grandi vuoti. Nel pomeriggio, per cercare di distrarmi, avevo preso l'abitudine di farmi lunghi giri in macchina, così, senza una meta, giusto per avere l'impressione di andare da qualche parte; mi fermavo a bere qualcosa e quando iniziava ad imbrunire tornavo a casa. La sera la passavo davanti al computer e ogni volta che individuavo una nuova proposta di lavoro, inviavo i curriculum. Poco dopo provavo a scrivere ma senza riuscirci. Ero come un deserto di idee e non vedevo che granelli di sabbia materializzarmisi in testa, tempeste di granelli di sabbia che turbinavano nell'aria. “ E tu vorresti fare lo scrittore...” pensavo, poi spegnevo il pc e andavo a letto sperando di riuscire almeno a trovarmi un lavoro in regola decente, insomma, uno di quelli che non si detestano. Un Mercoledì mattina, a lavoro, Pasquale mi disse di scaricare un furgoncino e di portare la merce in magazzino perché i banchi di frutta e verdura non richiedevano di essere allestiti. Fatto quello che dovevo fare, come sempre ci recammo al bar, bevemmo un caffè, mi pagò i trenta euro e mi disse che fino a quando la merce in magazzino non fosse stata smaltita, non aveva bisogno di me e che mi avrebbe telefonato per farmi sapere quando tornare a lavoro. In quel momento, capii che la cifra esatta da incrementare agli assegni di disoccupazione, non era detto ammontasse a trecentosessanta euro. Giunto a casa tornai a dormire. Verso le tre del pomeriggio mi svegliai, mi vestii e come di consueto in quei giorni, uscii a fare un giro in macchina. Passata circa un'oretta accostai e parcheggiai vicino all'entrata di un parco. Entrai e lo percorsi in lungo e in largo. Non c'era anima viva. Mi andai a sedere su una panchina, accesi una sigaretta, la fumai avidamente, mi sdraiai e chiusi gli occhi. Dopo un po' gli riaprii e da lontano vidi avvicinarsi due persone che sembravano puntare verso la mia direzione. Non mi sbagliavo. Quando furono a circa dieci o quindici metri da me, ebbi un sussulto e mi prese quasi un colpo: erano un maschio africano e uno asiatico, sfatti e barcollanti, vestiti di stracci, molto somiglianti ai due ragazzi del sogno. Mi vennero incontro.
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<< Amico, ce l'hai un paio di sigarette da offrirci? >> chiese l'africano.
Gliele detti, se le accesero e si sedettero lasciandomi nel mezzo. Erano sporchi e puzzavano. L'asiatico tirò fuori da uno zainetto logoro, un cartoccio di vino rosso. Lo aprì, diede una bella sorsata e mi chiese: << Ne vuoi un po'? >> Aveva la voce roca e biascicata.
<< Non bevo, sono astemio >> gli risposi, poi mi alzai e mi diressi verso la macchina. Si alzarono anche loro. Affrettai il passo, mi voltai e vidi che mi seguivano. “ Cosa cazzo vogliono quei due!” esclamai fra me e me; poi li sentii mandarmi a quel paese. Mi fermai e li fissai. Erano distanti una ventina di metri. L'asiatico, gridando mi chiese: << Hai qualche spicciolo da lasciarci >>. Non risposi. A quel punto si voltarono e incamminarono dalla parte opposta. Giunto alla macchina, accesi il motore, mi diressi verso casa e, una volta varcatane la soglia d'ingresso, andai spedito verso il frigo, presi una birra gelata, mi sedetti sulla poltrona in soggiorno e la bevvi a piccoli sorsi. Terminata la prima, ne bevvi una seconda e una terza e una quarta, quasi fino a stordirmi. Iniziai a credere di essere pazzo, di averli sognati i due ragazzi al parco e ridendo, mi ripetevo “ No, non può essere vero”. D'istinto aprii il pacchetto di sigarette. Ne avevo sedici. Ricordai che prima di offrirgliene due, ne avevo diciotto. Non avevo più fumato da allora e quindi, a meno che non le avessi perse, dovevo per forza averle date a qualcuno. Potrà sembrare assurdo tutto questo ad una mente lucida, ma c'è da tenere in considerazione che in quel momento ero confuso, non riuscivo a fare a meno di collegare quei due tizi ai ragazzi dell'incubo e inoltre, l'alcool che avevo in corpo, non faceva altro che ampliare quel senso di confusione e surrealismo che avvertivo, facendo tornare in me la paranoia del sogno premonitore, rendendomi poco obbiettivo e un po' folle. Forse alcuni viste le circostanze si chiederanno perché ho bevuto, bé, semplice, sentivo di averne bisogno. Quella sera andai a letto presto, crollai nell'arco di trenta secondi e dormii fino alle due del pomeriggio del giorno dopo. Al risveglio bevvi un caffè e feci una lunga doccia calda pensando alle coincidenze della vita, all'ironia della sorte, al mistero, alle cose o ai fatti a cui non sapevo dare una spiegazione. “ Mah...” sospirai e infine chiusi l'intera faccenda pensando che l'analogia dei ragazzi al sogno, fosse per l'appunto un brutto tiro giocato dal caso e nulla più.
Arrivò il giorno delle analisi del sangue relative alla sifilide. Era un Giovedì mattina. Mi alzai, lavai, vestii e recai al punto prelievi dell'ospedale.
Giunto sul posto andai all'accettazione e consegnai l'impegnativa allegata alla richiesta di prenotazione. Mi diedero un numero e un foglio sul quale era scritto il giorno in cui dovevo andare a ritirare gli esiti. Mi misi in fila e aspettai il mio turno. Non ci volle molto. Entrai in uno stanzino. Mi venne incontro un'infermiera molto carina, gentile nei modi, mi disse di accomodarmi su una sedia di legno e di tirare su la manica della camicia. Poggiai il braccio sinistro sul tavolo, chiusi gli occhi e dopo circa un paio di minuti, le sentii dire:
<< Può riaprire gli occhi, ho finito >>.
Non avvertii nessun dolore. Applicò sul buco un pezzo di cotone disinfettato tenuto fermo da un cerotto e mi disse di tenerlo premuto un po', giusto per non far venire il livido. Tornai a casa e guardai per bene il foglio del ritiro delle analisi. Dovevo aspettare dodici giorni. Il resto della giornata lo passai a fare niente. Verso le sette di sera mi chiamò Pasquale.
<< Ciao Giosuè >>.
<< Ciao >>.
<< Domani c'è bisogno di te. Fatti trovare alla solita ora >>.
<< Ok >> e attaccammo.
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I dodici giorni seguenti li passai senza che accadesse nulla di particolare da raccontare.
La mattina del ritiro delle analisi mi svegliai un po' ansioso. Era un Martedì. Giunto all'ospedale mi recai allo sportello e attesi il mio turno. Davanti a me c'era un uomo con dei segni sul collo e nelle mani. Sembravano piaghe. “ Chissà com'è messo sotto ai vestiti”, pensai. D'istinto indietreggiai due passi e mantenni quella distanza. Dopo qualche minuto toccò a lui e poi a me. Consegnai il foglio del ritiro degli esami e la carta d'identità.
<< Dunque... >> disse la tizia dietro al vetro << Corelli... Corelli... Corelli... eccola qua, l'ho trovata >>. Rimisi in tasca la carta d'identità ed esiti alla mano, volai fuori dall'edificio. Accesi una sigaretta, strappai la busta e senza starci troppo a pensare, aprii il foglietto:
Negativo; ero risultato Negativo ai test. Tirai un lungo sospiro di sollievo. “ Ora” pensavo, “ non devo fare altro che risultare negativo al test dell'HIV e il gioco è fatto”. Mi sentivo fiducioso e di buonumore. I tre mesi del “ periodo finestra” necessari ad avere una diagnosi definitiva, ormai erano passati. Andai spedito dal mio medico.
<< Buongiorno Corelli, la vedo bene stamattina >>.
<< Bé, si, non c'è male, sa com'è, sono risultato negativo ai test sulla sifilide. Ora vorrei fare quello sull'HIV >>.
Mi prescrisse l'impegnativa, lo salutai e andai al CUP. Fissarono l'appuntamento al Martedì successivo ma in un centro prelievi più distante da casa rispetto all'altro. Giunto il giorno mi recai sul luogo. La procedura fu analoga a quella della volta precedente ma l'accoglienza fu diversa. L'infermiera era antipatica e indisponente. Tornai fra le mie quattro mura e guardai il foglio del ritiro degli esami. Dovevo aspettare otto giorni.
Qualche giorno dopo, svolto il mio impegno al mercato, decisi di fare un salto da mia madre. Erano circa sei mesi che non la vedevo né sentivo. Quando mi vide mi abbracciò. Non sapeva nulla della mia situazione lavorativa e dell'appartamento che forse avrei dovuto lasciare. Le spiegai tutto filo per segno.
Disse: << Se hai bisogno, la porta è sempre aperta >>.
<< Grazie mamma >>.
<< Pranzi qui? >>
<< Bé, si, l'intenzione era quella >>.
<< Bene >>.
Dopo circa tre quarti d'ora rincasò mio padre e quando mi vide storse la faccia.
<< Cosa sei venuto a fare? >> mi chiese.
<< Sono venuto a trovarvi >> risposi.
<< Non ti fermerai a lungo, spero >>.
<< Scusa... ma che fastidio ti do? >>
Non rispose. Con lui era sempre la stessa storia. Ogni volta che andavo a trovarli, senza motivo, mi faceva sentire indesiderato. Si sedette a capo tavola, aprì una bottiglia di vino rosso e si riempì il bicchiere fino all'orlo. Durante l'intera durata del pasto, non gli rivolsi più la parola. Quando finì di mangiare uscì sbattendo la porta, rinunciando così alla sua pennichella pomeridiana.
<< Non ci fare caso >>, disse mia madre.
<< Stai tranquilla, ci sono abituato >>, risposi.
Mio padre era una delle ragioni per cui speravo di non dover tornare in quella casa. Sapevo che si sarebbero venute a creare situazioni di tensione e disarmonia capaci di mandarmi al manicomio. Ora non voglio star qui a precisare nei minimi dettagli i rapporti avuti con lui
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negli anni (la trama del racconto che sto narrando può farne benissimo a meno); dico solo che ne ha combinate di tutti i colori e che crescendo mi sono ribellato ai suoi modi di fare, forse a volte anche sbagliando. L'impressione che mi ha sempre dato è quella di un uomo che qualsiasi cosa fossi diventato, non avrebbe avuto alcuna importanza: ricco, povero, topo d'auto, imprenditore, tossico, spacciatore, stella del cinema o vagabondo che si trascina per la nazione un bagaglio di mosche morte, qualunque ipotesi, per mio padre non avrebbe fatto differenza e anche se l'avesse fatta, non mi avrebbe mai dato modo di scoprirlo. Ho provato a cercare riscontri ma è stato inutile; c'erano volte in cui arrivavo perfino ad auto convincermi che un briciolo di affetto nei miei confronti lo nutriva ma non era capace di manifestarlo, mentre era molto bravo, invece, a farmi credere il contrario. I valori che ho assimilato nel tempo li devo un po' a mia madre e soprattutto a me stesso, al buonsenso, alla coscienza e alla gente in gamba con cui ho interagito. Grazie ad alcune persone, ho imparato ad aprire gli occhi a visuali inedite e ad amare un po' di più la vita nonostante periodi amari m'inducessero a non farlo...
Passai l'intero pomeriggio a casa di mia madre a giocare a scala quaranta e a ramino. Amava quei giochi, si divertiva come una bambina e il vederla ridere mi faceva stare bene.
Poco prima di andarmene mi disse: << Ricorda che se dovesse andarti male con la casa, qui, per me, sei sempre bene accetto. Non dar retta a quel vecchio imbecille >>. La baciai, ringraziai, me ne andai e per la strada, tornai a sperare che non ci fosse bisogno di giungere a quella soluzione. Era un Venerdì e non avevo voglia di tornare a casa. Comprai una birra e mi andai a sedere sulla panchina di una piazzetta. C'erano dei cani liberi che gironzolavano da una parte all'altra in cerca di avanzi di cibo e un sacco di giovani compagnie sedute a terra che ridevano per qualcosa. Alcuni suonavano la chitarra, altri cantavano, bevevano, giocavano a frisbee, facevano girare dell'erba... sembravano tutti divertirsi. Mi sentivo solo. Scolai la birra, ne comprai altre tre e me ne andai. La macchina era parcheggiata ad un isolato di distanza da casa di mia madre, a sette, otto minuti dalla piazzetta. Giunto sul luogo l'accesi e mi avviai senza scopo lungo le strade della città all'imbrunire. Non c'era niente in giro che non avessi già visto. Tornai a casa un'ora più tardi. Raggi argentei filtrarono dalle persiane come ciglia di luna. Feci fuori le birre e con esse, una notte qualunque di antichi copioni ripetuti nel tempo.
Arrivò il giorno del ritiro delle analisi del sangue relative all'HIV. Quella mattina dovevo lavorare. Andai al mercato e salutai Pasquale. Il fiato gli puzzava più del solito. Mi venne la nausea e lo stimolo al vomito. Istintivamente retrocedetti qualche passo e girai la faccia in cerca d'aria.
<< Giosuè, cos'hai? Non ti senti bene stamattina? >> mi chiese.
<< No, niente, stai tranquillo adesso passa >>, risposi allontanandomi.
Svolto il lavoro, non prima di essermi fatto pagare, volai al centro prelievi e giunto sul luogo mi recai allo sportello degli esiti. La fila non era lunga e man mano che si avvicinava il mio turno, anche se riuscivo a non darlo a vedere, l'agitazione cresceva. Contai la gente davanti. Meno quattro, tre, due, uno... e toccò a me. Consegnai la carta d'identità, il foglio del ritiro delle analisi e attesi. Dopo un paio di minuti mi venne consegnata la busta. Uscii fuori dall'edificio, accesi una sigaretta e mi sedetti su una panchina posta a qualche metro di distanza dall'entrata. Guardai la busta e per un po' la rigirai fra le dita. Era giunto il momento di aprirla ma mi mancava il coraggio. Terminai la prima sigaretta, ne fumai un'altra, soffiai il fumo verso l'alto e guardai il cielo. In quell'istante mi venne in mente di
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aver lasciato dentro la carta d'identità. Rientrai, me la feci restituire e tornai a sedermi sulla stessa panchina. Non volevo più attendere oltre. Mi feci animo, strappai la busta, presi il foglio e lo aprii guardando da un'altra parte, poi girai leggermente lo sguardo su di esso e vidi il risultato: Negativo! Ero Siero Negativo. D'istinto mi alzai e gridai un: << E vai! >> poi tornai a casa felice come uno che si è tolto di dosso un bel peso. Nei giorni seguenti mi sentii più tranquillo e sereno. Almeno ero sano dopotutto.
Il tempo scorreva veloce come un jet sparato a mille aggiungendo pagine di storia recente alla vita di ognuno di noi. Non c'era possibilità di scampo dalle scadenze. Avevo la vaga sensazione che qualcuno o qualcosa mi avrebbe preso per le palle prima o poi. Quando camminavo per le strade, apparentemente libero, vedevo le sbarre e le catene dei vincoli ai quali l'uomo comune è legato e questo, mi faceva sentire come chiuso in gabbia da una forza invisibile...
Un Sabato sera, mentre passeggiavo assorto per le vie del centro mi sentii chiamare: << Giosuè! >> mi voltai e vidi una ragazza castana, leggermente in carne, venirmi incontro. Indossava dei jeans aderenti, degli stivali scamosciati marroni e una giacca verde tenuta chiusa. La osservai attentamente. Sorrise. Mi ci vollero almeno una trentina di secondi prima di riconoscerla.
<< Sara? >> le chiesi.
<< Si, sono io >>, rispose. Nel periodo dell'adolescenza frequentavamo la stessa compagnia ed eravamo buoni compagni di gioco, poi la sua famiglia si trasferì fuori città e smettemmo di vederci. Era ingrassata almeno una decina di chili.
<< Cosa fai di bello nella vita? >> mi chiese.
Ogni volta che mi ponevano domande del genere non sapevo mai cosa rispondere. “ Mi gratto le palle e mi annoio a morte” avrei voluto dirle oppure chiederle a mia volta: “ Ti interessa davvero saperlo? Cosa me lo chiedi a fare? Tanto una volta girato l'angolo torneremo a scordarci l'uno dell'altra!”
<< Allora? >> m'incalzò Sara.
Rimasi in silenzio un'altra manciata di secondi, poi, pensando che una risposta valesse l'altra, dissi: << Sono responsabile di una ditta di giocattoli >>.
<< Ah, davvero. Bé, allora te la passi bene >>.
<< Bé, si, non c'è male direi >> e dal momento che ormai la conversazione aveva preso quella piega, chiesi a mia volta: << E tu invece cosa fai? >>
<< Sono proprietaria di un sexy shop >>, rispose. Un attimo dopo tirò fuori dalla borsetta il suo biglietto da visita, me lo porse e aggiunse: << Se ti va di venirmi a trovare, lì ci sono scritti l'indirizzo, il numero di telefono e gli orari di apertura del negozio. Ora ti saluto. È stato bello rivederti >>.
<< Ciao Sara >>.
Continuai a passeggiare per le vie del centro, comprai una birra e la bevvi seduto sui
gradini di una chiesa. Poco dopo tornai a casa, mi spogliai, feci una doccia, mi asciugai, misi il pigiama, cucinai delle uova in padella con sottilette e curry, le mangiai e mi sedetti sul divano. Ripensai a Sara, alle risate e alle cose fatte assieme circa un paio di decenni prima. In particolare ricordai un pomeriggio. Fuori pioveva e a parte noi, nella piazzetta dov'eravamo soliti incontrarci con gli altri ragazzi della compagnia, non c'era nessuno. Sara mi disse che aveva casa libera e che se avevo voglia potevamo passare qualche ora da lei. Accettai l'invito. Mangiammo delle fette biscottate con Nutella e ci chiudemmo in camera
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sua. Le pareti della stanza erano piene di poster di James Dean e Kurt Cobain. Dal momento che non sapevo cosa dire né fare, mi sedetti s'una sedia. Sara tirò giù le tapparelle della finestra, spense la luce del lampadario e accese delle candele che sistemò sul comodino affianco al letto. Si sentiva forte il rumore della pioggia battente. Da un porta cd estrasse Nevermind dei Nirvana, lo tolse dalla custodia, lo inserì nello stereo, lo fece partire, si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. La luce fioca e tremolante delle candele che ballava sul suo corpo e a tratti saliva a illuminare i poster attaccati alle pareti, dava ai quei volti e all'intera stanza un qualcosa di spettrale e suggestivo. Kurt era morto suicida l'anno prima ma ogni volta che lo ascoltavo, avevo come l'impressione di sentirne il respiro sulla pelle. Sara si alzò dal letto, mi venne incontro, divaricò leggermente le gambe e si sedette sulle mie. Eravamo uno di fronte all'altra. Appoggiò la testa sulla mia spalla sinistra e mi abbracciò. Non sapevo come comportarmi, ero imbarazzato e rigido come una statua di bronzo. Molto timidamente mi feci coraggio e ricambiai l'abbraccio. Sara sospirò, sollevò la testa e avvicinò il suo viso al mio. Le nostre labbra si sfiorarono e continuarono a sfiorarsi per decine di secondi interminabili. Mi passò le mani fra i capelli, mi baciò le guance, la fronte, il collo, aspettando una reazione che tardava ad arrivare. Tornò con le labbra a sfiorare le mie, tirò fuori la punta della lingua e me le leccò lentamente eseguendo movimenti circolari. Mi sentivo come dentro ad un vortice. Avrei voluto ricambiarla ma non ci riuscivo, sembravo un cretino, l'insicurezza mi bloccava e... la porta della camera si aprì. Era sua madre che non so per quale ragione rincasò prima del tempo. Non la sentimmo entrare per via della musica. Rimase ferma immobile qualche secondo, si guardò attorno e accese la luce. Senza dire una parola andò verso lo stereo, lo spense, fece lo stesso con le candele e se ne andò in un'altra stanza. Feci cenno a Sara di andarmene. Mi accompagnò alla porta d'ingresso. Un attimo prima di uscire salutai sua madre che continuò a non proferire sillaba. Fuori non voleva finirla di piovere. Durante il tragitto verso casa non riuscivo a smettere di pensare di essere un coglione. Non ero stato capace di baciarla. Mi sentivo come privato della spina dorsale. Così giunsi a casa bagnato e coglione. Rividi Sara qualche giorno dopo. Mi disse che con la madre era tutto apposto, poi smisi di vederla per un po' e venni a scoprire che si era messa assieme a Drago, il bulletto della compagnia. Con lui si mise a fare tutte quelle cose c