Ho sempre cercato di dare un volto all’ autore del libro La cité de la joie, perché le pagine del «best- seller» francese sembrano scritte misteriosamente sull'acqua verdastra e limacciosa del fiume Gance, nei pressi del quale gli «hommes chevaux» errano come sonnambuli, negli «slums» di Calcutta.
Qualche anno dopo, ho conosciuto Dominique Lapierre in un teatro di Varese, dove presentava il suo ultimo romanzo «Mille soli», davanti ad un fatto pubblico composto e silenzioso.
Di quella Piacevole serata, ricordo soprattutto il ticchettio del «rickshaw» che agitava ritmicamente per rendere omaggio a quelle migliaia di persone che riescono a sopravvivere, nella capitale indiana, grazie alla loro attività di «uomini- cavalli».
Il «rickskaw», come scrive lo scrittore in francese, "c’est le grelot qu’ ils tiennent en glissant l'index droit dans sa lanière et dont ils se servent comme d’un avertisseur ou pour attirer les clients en le tapotant contre le brancard".
Il film La città della gioia (Rolland Joffré, 1992), d'altro canto, ci mostra una comunità di disperati alla mercé di una criminalità organizzata senza scrupoli, che non rispetta neanche le più elementari norme di convivenza sociale.
I lebbrosi e gli emarginati di Calcutta vengono presentati come se fossero dei «fenomeni da baraccone» da mostrare ai turisti occidentali per suscitare compassione e pietà. Per dimostrare, insomma, i buoni propositi «yankees» nei confronti di un paese in via di sviluppo…
La storia del medico americano (Max) e dell'indiano Hasari, estrapolata «toto corde» dal libro di Lapierre, non riesce a coinvolgere lo spettatore perché la sceneggiatura di Mark Medorff manca di spessore psicologico.
Soltanto gli occhi di Hasari, l’uomo- cavallo, riescono a brillare di luce propria ed hanno il colore del cielo sopra Calcutta prima di un tifone.