Da giovane decisi di volare con il deltaplano, ricordo che la giornata non era delle migliori, ma organizzai lo stesso la spedizione. Arrivato in torretta di lancio, uno strapiombo naturale, si alzò la nebbia nel silenzio avvolgente. Certo, nessuno sarebbe stato capace di lanciarsi a quelle condizioni, io però sentivo di ritrovarmi nella nebbia, come spinto da un'immagine sospesa, a richiamo di una certa leggerezza spirituale, intesa non come debolezza, intendiamoci. Mentre mi preparavo al montaggio del deltaplano, raggi di sole penetrarono in quella foschia surreale, il silenzio m'invase ed il primo pensiero fu per lo straordinario momento indescrivibile.
Rifocillatomi già a valle, sentii lo stesso un languorino, per fortuna avevo con me delle caramelle e finito di montare le ali dell'uccello meccanico, mi sedetti sul dirupo a gustarmele. La nebbia s'intensificò, perplesso rimasi lì ad aspettare che il tempo migliorasse. Era come un manto di lana bianchissima poggiata sulla terra, in uno spazio e volume indefiniti. Le ore scorrevano, ma erano solo pochi istanti, dove tutto sembrava eterno, ma come un pendolo, ogni secondo era tonante. Guardando in basso, abbagliato dall’ ovattata, intravidi delle ali di deltaplano, come quelle dell'amico meccanico pronto a volare. Rimasi incredulo e spaventato mi alzai e mi accesi una sigaretta, appoggiato alla roccia. Mille pensieri in una sola volta, tutti insieme appassionatamente a farmi sentire spaventato, senza comunque riuscirci. Chissà, il demone voleva metterci del suo. Qualora fosse riapparso un raggio di sole, mi sarei buttato. intrufolandomi nel mantello principesco, a caccia non so di cosa, forse per sentirmi vivo.
Fu così che, una sigaretta dopo l'altra, il fato aggiunse alla sventura una sorta di ironica illusione: volevo avventurarmi nell'impossibile ed avevo paura, che controsenso! Non più attimi ma interminate ore, susseguirono ad emozioni coinvolgenti; era entrata in me, a far parte della famiglia surreale, la distanza che mi divideva dal reale, sogno o realtà? D’ estate, le montagne fingevano una calura promettente per la sola accoglienza, unica nel suo genere; d’ inverno ricordavano cristalli luminosi. Tuttavia, la solitudine era di casa, tra foglie estirpate dagli alberi in letargo ed interminati silenzi sonori, nel sacro luogo della riflessione. Fu così che, spronato da un tempo diventato intrattabile, colsi l’ attimo per prepararmi al rifiuto prigioniero, il tempo divenne nemico. Trovato un rifugio di fortuna, decisi di rimediare alla cena. Infatti la montagna prometteva selvaggina e squisiti elisir di frutta mista. Evidentemente pensai di non scendere per la notte o rimanere ancora un po’ a gustarmi la valle, non ricordo bene. Una cosa era certa, l’ allusione paesaggistica dell’ eden di mezza stagione. Il pensiero ritornò su quelle ali intraviste nella nebbia. Chi mai poteva sconvolgere la serenità di un silenzio incantevole? Eppure pensai agli scherzi della fantasia. Istanti di lucidità distorta è proprio quello che non ci voleva. In quel periodo dell’ anno, le sere bussavano leste, ricordo che presi l’ attrezzatura in dotazione al deltaplano per riporlo nel suo assetto da trasporto, quando un lieve venticello spazzò via la nebbia, dando spazio a sublimi prati immortalati sull’ onirico quadro della natura. Allora accettai di aspettare ancora perché stranamente, nonostante la luce sfiorisse in fretta, una strano chiarore mi prometteva l’ orizzonte nei miei occhi stanchi.
Le foglie divennero il mio sacco a pelo, con i rami secchi un bel fuoco di bivacco che riscaldava tutt’ intorno, mantenendo la roccia tiepida ed ospitale, infatti una rientranza mi consentì un rifugio. Mi addormentai con il sottofondo di ululati e gufi in partenza di mete più calde. Una civetta che si burlava di me, mi tenne compagnia tutta la notte. Da qui, l’ avventura si presentò fantasiosa, caduto in un sonno più per la stanchezza che per il dovere di dormire vista la tarda ora, fui scaraventato dentro un sogno. Di colpo mi ritrovai a volare con il deltaplano, sulla vallata illuminata dalla luna piena. A farmi compagnia, una ragazza dai capelli d’ argento col suo deltaplano dalle ali dorate, come quelle che avevo visto nella nebbia quella sera. Sospesi in un lento vortice a risalire e poi a riscendere per risalire di nuovo, come un walzer d’ amore, godendoci ogni attimo tra le ombre riflesse dei nostri corpi, con gesti eleganti come se volesse parlare lei disegnò un tempo già passato, il suo tempo lì vissuto. Mi prese per mano e le quattro ali di tela, divennero solo due; due ali d’ angelo che mi strinsero a se portandomi nella sua età, nel mistico viaggio immortale. La luna sembrava parlasse, la dea argentata mi amava nel tepore di un abbraccio e giunti su di una collinetta sconosciuta, colse una rosa, e lì mi ferì. In passato, un tragico incidente rubò la vita ad una ragazza appassionata di volo, un parapendio difettoso fermò per sempre il suo cuore sulla collina della dea argentata. I giornali dell’ epoca ne parlarono a lungo, ma nessuno seppe chi fu la ragazza coinvolta nell’ incidente. Come una leggenda popolare, quella storia ancora oggi fa parlare di se.
Mentre la luna si occultava, la dea aprì le sue ali azzurro chiaro e guardandomi fece un gesto di persuasione, come per ammonirmi, m’ invitò a sollevare una piccola pietra. Nel sollevarla, un brivido sottile attraversò il mio corpo, sotto la pietra c’ era scritto il mio nome e accanto ad esso Volina, il soprannome che la ragazza aveva nel passato. Era lei, con le ali spiegate ed un sorriso travolgente, la dea Volina, ed era proprio davanti a me, bella e inafferrabile. Solo un sussurrato canto d’ amore, un suono quasi insopportabile ma nello stesso tempo, rilassante. Proprio ai confini con la realtà. Dissipato della paura, ricordo che le chiesi chi fosse e lei mi accennò col capo un si e nulla più. Che strana la vita, perché sognai quell’ incanto? Mah, la mente, a volte, gioca anche dei bei scherzi, non c’è dubbio. Riprendemmo a volare, lei mi teneva con una sola mano, mi sentivo sicuro ed amato, come se volesse proteggermi, dirmi qualcosa che riuscivo a capire.
Anche se sorpreso per il volare, accettai il gioco e mi avventai nel vortice armonioso che ci riportava su al dirupo o chissà dove. Invece si, arrivammo sullo strapiombo, mi adagiò tra le foglie e con l’ ala del cuore mi accarezzò il viso, allontanandosi, con lo sguardo fisso su di me, verso il tunnel di luce. All’ alba mi svegliai e preso dall’ ansia per aver lasciato un mondo più bello in apparenza, m’ avventurai nel cercare cibo per colazione, quando mi accorsi che non ero sul dirupo, ma sulla collina a me sconosciuta. Perché? Attorniato da fiori e boschi, camminai mimando perplessità e incertezze, alla ricerca di qualcosa o qualcuno. Una domanda fissa nella mia mente, il dubbio di essere ancora in vita., se mi fossi lanciato con la macchina infernale oppure dormivo ancora ed era quindi tutto un sogno, mah… Non si può immaginare quante volte mi sono lanciato anche in solitaria da quel dirupo, ma qualcosa aveva spezzato il contatto con la realtà, qualcosa che forse incideva sul mio passato. D’ un tratto, mentre camminavo nel bosco per cercare del cibo, l’ alba divenne notte ed una voce mormorò il mio nome. Lentamente tutto sembrava più nitido fino a comprendere di ritrovarmi in un ospedale con una gamba ingessata. Nella fortuna di essere ancora tutto intero, a parte l’ arto ridotto maluccio, la sfortunata notizia di apprendere che il deltaplano era andato in frantumi, ma che mi aveva salvato la vita, grazie all’ ala sinistra incastratasi tra i rami di un albero. La stessa ala che mi accarezzò il volto, nel sogno. Così, mi ritrovai in un letto di una squallida corsia d’ ospedale pieno di dolori, ma attento con i pensieri per la gioia vissuta con lei, la dea d’ argento, la bionda ragazza dal meraviglioso sorriso . Volevo rivederla, ma che senso aveva immaginare l’ impossibile? Passò una settimana, tra visite parenti e mediche, ero in balia della tormenta, sempre con il fiato sul collo tra rimproveri e consigli. Cominciavo ad averne le tasche piene. Un giorno, era domenica, venne a trovarmi il parroco del mio paese, stranamente conciliante, gli raccontai cosa mi era accaduto. Mi disse che sarebbe tornato con una spiegazione. Cosa volesse dire, l’ ho capito molto più tardi, si, proprio alla fine della storia. Come di consueto, la notte bussò alle porte di una estenuante giornata, ma il sonno non prese piede, per il forte dolore della frattura. Pigiai allora sul pulsante del campanello di sicurezza per chiamare l’ infermiera. Aspettai inutilmente e mentre mi prestavo all’ ennesimo sonno, la porta si aprì ed un’ infermiera si avvicinò lentamente, come se volasse sospesa dal pavimento, incredibile. Pensai in fretta che fossi cascato di nuovo in un sogno. Mentre concedevo attenzione all’ infermiera, ecco il dottore entrare con una cartella in mano. Le attenzioni del medico non mi distraevano dalla purezza di quella creatura con il cappellino elegante e la targhetta sul petto e come in una fiaba, quell’ angelo si avvicinò accarezzandomi la guancia, la guardai, lei mi sorrise, aveva i capelli color argento, ma rifiutai di capire. Stupita dal mio sguardo indiscreto, si tolse il cappello rincuorandomi di non aver paura. Ancora lei, eh no, dissi tra me e me. Le domandai cosa ci facesse nella mia stanza e nel candido silenzio fece solo un cenno: aprì le braccia come l’ ali d’ angelo e mi giurò amore per sempre e sparì, lasciandomi solo con il medico che blaterava chissà cosa. Venne l'ora delle dimissioni dall'ospedale. Rimesso a nuovo e pieno di forze, tornai a casa a riabbracciare la mia famiglia e il mio cane Bob, amico inseparabile che a momenti sveniva dalla contentezza di riabbracciarmi. Passai giorni sereni impiegati a curare il giardino davanti casa e a costruire modellini d'aerei, la mia passione, un hobby intelligente e di precisione. Un bel mattino, scelsi di cambiare il percorso della solita passeggiata con il cane, così ci fermammo davanti un’ edicola dove lessi l’ inserzione di un quotidiano appena arrivato in vendita. C’ era scritto del ritrovamento di un paracadute in una zona semicollinare al di sotto del Grande Volo, la rupe di lancio. Fresco di patente, chiesi l’ auto a mio padre e mi diressi verso la collinetta che non conoscevo. Erano molte le zone da me sconosciute e di poca importanza per l’ età che avevo di giovanotto donnaiolo. Invece quel posto mi suscitava fiducia, strano, un luogo di ritrovamento di resti, non dovrebbe animare felicità, ma soltanto curiosità. Arrivato ai piedi della collinetta, m’ intrufolai tra il bosco e pian piano risalii fino al punto di ritrovo. Forze dell’ ordine, vigili del fuoco e persino un’ ambulanza sul posto. Un gran mormorio tra indagini, dubbi ed affermazioni, rendevano assente la mia presenza. Approfittai del caos e mi avvicinai al paracadute, scorgendo lo stesso colore delle ali fra la nebbia nel sogno, ornato con un colore dorato. I dubbi si sciolsero come l’ acqua piovana che scivola nelle segrete della terra e rimasi lì dopo che tutti andarono via. Aspettai la sera, come quella volta sul dirupo, pensai che sarebbe tornata da me, ma non venne mai. Solo una visione, in ricordo di lei, per me e per l’ amore che mi donò: una rosa rossa sull’ erba bagnata dalla nebbia che mi coprì.