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Quando avevo 16 anni ed inseguivo le chimere di un movimento politico di destra, mio padre mi disse: “Sei un ragazzo, devi fare le tue esperienze ma ricordati chi-è tot di birichin!” e mi raccontò la sua storia che da quel giorno feci mia, pagandone lo scotto, quando più tardi, dirigente nel Pubblico Impiego non volli prendere tessere. “Pur avendo le mie idee -proseguì- non mi sono mai voluto schierare politicamente, desideravo essere libero da ogni vincolo, ma durante il fascismo giunsero giorni che divenne d’obbligo se volevi campare”.
Fu nel ’31 che anche fra i ferrovieri scoppiarono forti tensioni. Mussolini aveva promosso una campagna di tesseramento al Partito Nazionale Fascista, particolarmente sollecitata fra i lavoratori dello stato. “Io, all’epoca, - continuò mio padre - non presi la tessera, ma i miei colleghi mi guardavano con sospetto dicendomi: <T-ci un birichin, t ci un comunésta!> e di fronte al mio diniego d’iscrivermi al Partito fui presto trasferito a Salerno. Tuo fratello Giorgio era appena nato e rimase a Rimini con la mamma e i nonni disperati.
A quel punto tuo nonno Nazzareno chiese udienza a Mussolini che lo ricevette a Roma. Giunto al suo cospetto il nonno si mise sull’attenti, fece il saluto al Duce e con voce stentorea che tradiva l’emozione disse pressappoco così: <Duce, sono un vecchio pensionato ferroviere, romagnolo come Voi, che ha già dato il suo tributo di sangue alla patria. Ho avuto sei figli maschi, quattro sono morti di malattia, uno decorato medaglia d’oro al valor militare è caduto sul Carso a 23 anni. Ora mi è rimasto quest’ultimo figlio che è stato trasferito a Salerno, anche lui decorato al valore con la croce di ferro. A casa mi rimane una moglie che ha un malaccio (il cancro) e una nuora col nipotino abbandonati a se stessi… Duce, fate che due poveri vecchi non muoiano lontani dall’unico figlio rimasto!>. Il Duce lo ascoltò in silenzio, poi disse: <Torna a casa Nazzareno che da domani tuo figlio sarà a Rimini>; il nonno commosso sino alle lacrime ringraziò e salutò il Duce, ma questi, quando era ormai di spalle e stava uscendo, gli gridò: <Dì ma che quaion de tu fiól che toga la tèsèra!>.
E fu così –proseguì ancora mio padre– che tornai e presi la tessera del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Dopo la seconda guerra, giunti alla Liberazione, pensai che finalmente non sarei più dovuto sottostare a costrizioni di sorta e quindi non m’iscrissi a nessun partito d’allora. Purtroppo, dopo breve tempo alcuni colleghi cominciarono a guardarmi storto e qualcuno dei militanti, fra i più fanatici, mi disse: <T-ci un birichin, t-ci un fasésta!>. Per il quieto vivere dovetti chinare ancora una volta la testa e presi la tessera del P.S.I. (Partito Socialista Italiano) che più s’avvicinava al mio pensiero. Fai quello che vuoi -concluse- ma ricordati chi-é tot di birichin!”.
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Questo racconto è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons: è possibile riprodurla, distribuirla, rappresentarla o recitarla in pubblico, a condizione che non venga modificata od in alcun modo alterata, che venga sempre data l'attribuzione all'autore/autrice, e che non vi sia alcuno scopo commerciale.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«Tratto da "Storie di famiglia" d'imminente pubblicazione.
Ringrazio per i suggerimenti che accolgo, specificando che BIRICHIN assume significati diversi a seconda del contesto; in questo caso significa "poco di buono".» |
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