Il 1977 fu un anno particolare della vita di molti studenti fuorisede che affollavano i portici di Bologna, ricoperti di murales che rappresentavano soprattutto scene di rivolta.
Sotto la Torre degli Asinelli si respirava l’ aria amarognola dell’ insurrezione armata.
Sul muro scrostato adiacente al teatro comunale di Piazza Verdi spiccava una frase scritta con lo spray rosso:
“Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli" (Karl Barth).
Mai un aforisma fu così eloquente perché racchiudeva, in una sola frase, l’ ideologia di un’ intera generazione che ha creduto nella lotta armata e nella rivoluzione.
Tutte le stradicciole che conducevano al centro storico di Bologna erano sorvegliate da agenti in tuta antisommessa. I famosi celerini erano paradossalmente gli addetti alla sorveglianza di una rivoluzione proletaria che sembrava essere alle porte di un’ Italia sull’ orlo di una crisi di nervi e che, per fortuna, seppe reagire energicamente e sconfisse le farneticazioni delle Brigate Rosse.
A volte, pareva di vivere a Santiago del Cile dopo il colpo di stato di Pinochet. Bastava il lembo di un quotidiano avverso che fuorusciva da uno zaino per scatenare la bagarre.
Il mondo universitario sembrava essere diviso in due fazioni che si guardavano in cagnesco: da un lato c’ erano gli studenti che indossavano il loden, simbolo della destra conservatrice e cattolica, e dall’ altro quelli che indossavano l’ eskimo, emblema della sinistra extraparlamentare e proletaria.
Renato, uno studente d’ origine abruzzese che studiava al D. A.M. S. di Bologna, si collocava con piena coscienza in mezzo alle due ideologie che coabitavano disastrosamente in Italia: era quello che in quel difficile periodo della nostra repubblica veniva chiamato semplicemente "catto- comunista".
Renato, che oggi è un cinquantenne brizzolato e insegna francese in una cittadella dell’ Italia settentrionale, ricorda questa storia con struggente nostalgia soprattutto perché essa fa parte del suo vissuto più intimo e lo riporta inesorabilmente indietro nel tempo quando era un fervente ecologista e un pacifista.
All’ epoca dei fatti, aveva poco più di vent’ anni e viveva la sua condizione di studente universitario senza scossoni né colpi di testa. Si limitava a protestare il suo disappunto nei confronti del potere costituito indossando l’ eskimo. Non partecipava alle occupazioni e agli espropri proletari ma credeva fermamente in un socialismo solidale e umano che, con il passare del tempo, non è stato realizzato in nessun paese del mondo.
Era una mattinata uggiosa e sulla città di Bologna aleggiava una nebbiolina che si confondeva con inquinamento del traffico cittadino che fungeva da colonna sonora alla quotidianità della vita universitaria e all’ apparizione provvidenziale di una ragazza (di cui Renato non ha mai saputo il vero nome, ma che ha sempre chiamato Marguerite, forse perché in quel periodo stava leggendo un libro di Marguerite Duras).
Marguerite arrivò nell’ aula 113 del terzo piano di Filologia Romanza poco prima che iniziasse la lezione di letteratura francese.
Era vestita in maniera elegante. Sembrava essersi infagottata in quel modo così buffo per recarsi a una sfilata di moda o ad assistere alla prima mondiale di un film d’essai.
Indossava una lunga gonna beige che la slanciava, ma, nello stesso tempo, le dava un non so che di borghese e di posticcio.
Si trascinava appresso una pelliccia di visone, con studiata disinvoltura, come se fosse un’ appendice superflua del suo prê t-à-porter e stringeva nella sua mano destra una cartella trasparente ad anelli.
Si diresse verso il centro dell’ auditorio, senza alzare gli occhi verso le decine di persone che aspettavano l’ arrivo del professore, e appoggiò delicatamente la sua pelliccia sulla balaustra delle scale d’ emergenza, dove erano accatastati cappotti, giubbotti e impermeabili di ogni genere.
Si sedette casualmente vicino a Renato, che non la perse di vista neanche per un istante, e aprì la cartella che posò delicatamente sulle sue ginocchia.
Il professore L***** P***** arrivò alle ore 15. 15, preciso come un orologio svizzero, ed espose la lezione per tre quarti d’ ora.
Marguerite rimase immobile fino a quando tutti gli studenti lasciarono l’ aula, ad eccezione di Renato che rimase in attesa che la ragazza si accorgesse della sua presenza. Improvvisamente, si alzò e lentamente si diresse in direzione del posto in cui aveva lasciato la sua pelliccia.
Guardò l’ eskimo di Renato che la copriva e alzò la testa per cercarne il proprietario.
“É suo, questo coso?”, disse a Renato con un tono quasi dispregiativo.
Renato si avvicinò all’ eskimo e lo prese tra le mani con delicatezza, quasi fosse di cristallo.
“Lei non sa quante volte mi ha tolto dai pasticci questo eskimo, signorina”…, rispose con nonchalance.
Marguerite lo guardò con perfidia, afferrò la sua pelliccia e si allontanò borbottando tra i denti.
Qualche giorno più tardi, mentre Renato stava attraversando Piazza Verdi per recarsi alla mensa universitaria, intravide un attivista di “ Autonomia Operaia” che stava infastidendo una ragazza. Era Marguerite.
“Guardatela come va in giro con una pelliccia di visone, questa fascista di merda! Adesso diventerà rossa come il sangue di quelle povere bestiole che hanno ucciso per riscaldarti!”, le urlò il ragazzo scalmanato agitando una bomboletta spray.
Renato si avvicinò alla ragazza impaurita e le fece da scudo.
“Cretino, ma non vedete che è una pelliccia ecologica!”
Il militante di estrema sinistra lo guardò dritto negli occhi, come se volesse che Renato abbassasse lo sguardo, ma non premette il pulsante della bomboletta e si dileguò bestemmiando in mezzo alle persone che si erano fermate per assistere alla scena.
Marguerite gli prese la mano con impeto e gli sussurrò: “Grazie mille!”
Renato si liberò dalla stretta della ragazza e, senza proferire parola, scomparve dietro ai totem di Pomodoro.
Il suo eschimo aveva tolto dagli impicci quella ragazza arrogante ma non era riuscito a salvare la vita a quei poveri visioni a cui i conciatori di pellicce avevano tolto il mantello per riscaldarla.