Sfogliando il diario della vita già trascorsa, non conto i giorni turbolenti, mi sovviene il caldo sopore della memoria, nella stagione che ancor incanta le emozioni. Scrivendo per mia natura disinvolta, ascolto la voce di un richiamo che inneggia alla musica famigliare, quando dischiuso il velo delle parole, comincia un lungo monologo, scorrendo pagine infinite di verità.
In intima confessione, si rivelano debolezze interiori che il corpo non nega, piagato per le continue cicatrici che lasciano intravedere quotidiane lotte di eccelsa virtù caduta al tappeto. E uno spirito di umor nero, misto al diafano sorriso di sbandierata sicurezza, manifesta la voglia di ribalta nel gioco di una disputa tra me e l’ invisibile interlocutore a cui mi rivolgo benevolmente.
Cammino avanti e indietro incontro a pensieri che si disfano sul nascere, per poi riprendere quota sul filo della leggerezza a cui mi abbandono. Discorsi piani alludono al passato ridondante in ripetersi di altalene che oscillano sulla brezza delle mie tiepide stagioni. Quel movimento che mi porto dentro in trastulli d’ infanzia riecheggia le corse di bambina dal tenero sguardo, lei che si porterà dentro l’ infantile movenza del ruscello nel tempo delle piene che debordano lungo argini di trasparente vita.
Se potessi parlare al cuore con franchezza, mi poserei sul dorso del tempo per chiedere indietro i sassi lanciati sulla sponda trasparente, caduti sul fondale dimenticato, dove l’ acqua è torbida, non si specchia che il riflesso dell’ ombra rincorsa tra gli alberi affranti che riposano sul ciglio verde, bagnato di fresca rugiada.
Se solo potessi rivivermi dall’ alto delle mie possibilità, allora rischierei di cadere nell’ abbraccio del precipizio che ora vivo come duro affronto. Cadendo ogni giorno in vuoti di solitudine, comprendo che l’ uomo necessita per bisogno del confronto col silenzio sommesso, dolciastro, come un frutto che sulla bocca lascia il sapore di una lacrima ancora intatta. Il silenzio rinverdisce, profuma di istanti racchiusi in una manciata di polvere che il vento getta via, per poi saggiarne il gusto del ricordo, porgendo l’ orecchio di là da una finestra aperta sul cielo, a contar le stelle che mancano qui sulla terra, dove tutto rimpicciolisce e cadù co è il tremor di foglia.
Sapessi ritrovarmi in una delle età vissute, raccontando pezzi di esistenza cancellati, in mezzo a segnalibri di rose, che hanno lasciato la fragranza dei petali appassiti, l’ odore riconoscibile delle cose intime che rinascono a volte, quando la mano si sofferma e un po’ indugia a sfogliare fili di seta rilegati in pagine ingiallite.
Sapessi rispondere al richiamo delle voci amiche, nascoste in giorni che faticano a riaffiorare in superficie, nella continua ricerca, affannosa, delle chiavi smarrite, lasciate chissà dove; poter riaprire porte chiuse per sempre, dove gli anditi sono bui, le camere oscure, macinano i ricordi, tagliuzzate foto sparse dentro vecchie scatole, vestiti un tempo indossati, ora appesi negli armadi di legno, dove aleggia il senso di vuoto.
Resta la parvenza di un vissuto condiviso, sguardi che una volta si intrecciavano, discorsi pieni di saggezza, mani mangiucchiate, erose dalla fuliggine, indurite nella fatica di impasti ripetuti, umide di pane appena cotto, sbriciolato sotto i morsi della fame.
Ancora crescono le piante di limone nel piccolo orticello, generose di foglie un po’ aspre, come il succo dissetante che empie le giornate di primavera.
Nella bella stagione, tutto sembra riprendere vita, rinasce con un volto nuovo, diseppellisce le catene che hanno stretto avidamente i polsi, liberando l’ istinto che preannuncia il volo, il desiderio di riprendere in mano una penna e un foglio, di abbandonarsi timidamente, lasciando un tratto di sè.