Quand’ ero bambina, più di cinquant’ anni fa, l’ ora della merenda per noi ragazzi era un momento magico ed irripetibile, un rito al quale le mamme non derogavano mai, fatto di cose semplici e genuine, non come ai giorni d’ oggi che tutto si risolve con uno snack dall’ aria sbilenca e malcotta, ingoiato in fretta davanti alla televisione, in perfetta solitudine, una volta era diverso specie se dentro la merenda c’ era un ingrediente fondamentale, che capirete.
Dovete sapere che le mamme erano per lo più casalinghe, impegnate nella cura della casa e dei bambini, un’ aureola di santa pazienza a incorniciare i visi e mani operose da mattina a sera, regine incontrastate del focolare, spesso contornate da profumi che non sapevano né di cipria né di colonia, ma di sughetti e minestroni sopraffini.
Mia madre era una cuoca superba, in cucina faceva miracoli e le delicate fragranze che scaturivano dai suoi piatti sapevano far resuscitare un morto. E poi c’ era il giorno speciale, quello della merenda “ speciale”, che ancor oggi profuma di lei, attesa insieme a mio fratello come premio straordinario nei giorni di festa. E mentre rammento questa dolce memoria, la vedo nuovamente impastare e amalgamare sorridendo mentre due trecce scure, festose, saltellano d’ intorno.
Come tutte le cuoche e mamme sapienti usava ingredienti freschissimi, preparandoli con cura sul grande tavolo di formica verde. Era molto attenta e non lasciava nulla al caso. Dunque, iniziava l’ opera sbattendo il bianco di due grandi uova finché questo appariva come un pugno di neve soffice e bianca, poi con i rossi tingeva questa morbida schiuma, mescolando piano, quasi carezzandola, fino al momento d’ aggiungere la farina setacciata unendo poi lo zucchero ed il latte.
Me la ricordo usare solo il cucchiaio di legno che sbatteva con vigore nella ciotola di porcellana bianca e senza l’ aiuto di sbattitori elettrici, la sola forza delle braccia, girava vorticosamente l’ impasto, che diventava soffice ed elastico, profumato di vaniglia, che dosava da piccole cartine azzurre insieme al lievito; lei così minuta ma forte come una roccia, emanava all’ improvviso un’ energia portentosa, la bocca piegata al sorriso, le mani abili e precise, una fatina con al posto della bacchetta magica cucchiai e palette di legno. Mentre il composto riposava un momento, prendeva la sua casseruola preferita, d’ alluminio, dai bordi alti e dai grandi manici, vi metteva il burro e lo lasciava sciogliere piano nel forno tiepido finché, diventato color dell’ oro, lo aggiungeva alla torta agitando e sbatacchiando il cucchiaio magico; con quel poco calore l’ insieme cominciava a filare, formando minuscole bollicine che scoppiettavano allegre, una sorta di lava morbida e sinuosa, e dalla fragranza squisita. Impugnata la ciotola con mani forti e decise, con un colpo ben assestato rovesciava tutto nel tegame, livellandolo per bene. Per completare l’ opera cospargeva attentamente il centro di zucchero e poi via! subito nel forno.
Contava lento l’ orologio quei minuti, in un’ attesa che sapeva di gola e gioia, mentre nella cucina il profumo imprigionava cose e persone, ammaliandole. Il forno doveva stare ben chiuso, nessuno doveva avvicinarsi, tanto meno azzardarsi ad aprirlo. Ma siccome ai bambini dire “ non farlo” è dire “ fallo pure”, di soppiatto m’ avvicinavo al vetro a spiare quella bontà farsi torta, la seguivo crescere lungo i bordi, montare come marea e rischiare spesso d’ esondare per poi farsi color caramello mentre al centro lo zucchero diveniva crosta e si spaccava in piccole rughe, come la terra arsa dal troppo sole.
Quando finalmente era l’ ora, mamma spegneva il forno, lasciava riposare il dolce per alcuni minuti, affinché non smontasse, poi chiamati noi bambini a raccolta, mentre l’ acquolina già scendeva copiosa agli angoli delle bocche, apriva pian piano lo sportello e preso il tegame lo rovesciava sul piano di marmo, affinché freddasse un attimo il fondo. Intanto, foderato un piatto con la carta del pane con una rapida giravolta riprendeva possesso della sua opera d’ arte e oplà! la torta era bella e scodellata.
Col setaccio spargeva attentamente lo zucchero a velo nelle piegoline della crosta, come un giardiniere che amando le sue piante a tutte, e in parti uguali, doni l’ acqua. Ora ch’ era pronta, bella, tronfia, alta e rotonda come la O di Giotto, morbida come le braccia di mamma quando ci stringeva forte, ne faceva piccole fette sulle quali i nostri dentini voraci andavano a frangersi, come l’ onda a riva, e mentre gli occhi brillavano e i piedini sgambettavano in segno di gioia, le mani strette a quella tenerezza ancora tiepida, lei sedeva, tornando dolcemente piccola e minuta, le mani in grembo, a guardare i suoi figli, con un sorriso che non dimenticherò mai, perché so che in quella torta c’ era un ingrediente in più, unico, insostituibile, immenso.
Bravi, l’ avete indovinato anche voi vero? era il suo amore!