Garzeno (Così eravamo)
l’ Assunta
Quando penso a lei non posso fare a meno di rivederla in mezzo a un prato mentre falcia il fieno con la falce fienaia, “ la ransa”.
Bella, di una bellezza semplice e dura, come le rocce della montagna.
Giovane, ma con il viso solcato dalle rughe di un lavoro faticoso e amato.
E’ sotto il sole Assunta, in mezzo ai fiori, e falcia.
Di ogni erba conosce i segreti e quanto ne siano ghiotte le mucche.
“ Quel fieno lassù, no, non lo dovete raccogliere, perché cresce sull’ acqua e alle mucche non piace”.
Io, insegnante nella scuola media di Garzeno, mi ero accoccolata all’ ombra di Assunta come per tuffarmi in un bagno di realtà, soffocata com’ ero da concetti libreschi che pretendevano di insegnare tutto. Con le mie nuove idee sull’ insegnamento mi trovavo a scontrarmi con la situazione di un paese in cui i ragazzi erano cresciuti ad una filosofia spoglia e tagliente. Mi sentivo in conflitto ma rimanevo incantata ad ascoltare quella donna, perché lei, con quel suo fare energico, faceva barcollare la mia scienza pedagogica. L’ ammiravo perché non aveva mai dubbi. Erano gli stessi principi paesani, dal sapore antico, che avevo rinnegato da anni, lanciandomi alla ricerca del nuovo, che ora mi giungevano in un contesto diverso, con la voce forte della montagna, una creatura che non cede alle mode. E quei principi mi si offrivano sulle pendici, ancorati al terreno, sotto licheni persistenti come pietre che non temono il tempo.
Marciava decisa, Assunta, come la falce della sua ransa.
Scalza, in mezzo all’ erba, non aveva timore delle vipere.
I capelli nerissimi divisi in due sulla fronte e raccolti in una treccia attorcigliata dietro la nuca. Un’ acconciatura rinascimentale, o greca, o romana, che attraversava tutti i secoli fino a giungere sulla testa di una madonna contadina.
Portava degli orecchini molto grandi che rappresentavano la M di Maria.
Le donne mature portavano tutte questo tipo di orecchini, ma i più antichi raffiguravano il gallo di Palermo o la R di Santa Rosalia e forse questi erano stati il regalo di nozze degli uomini emigrati in Sicilia nel 1700 a lavorare nelle zolfare. Altri orecchini rappresentavano, invece, l’ aquila asburgica dei tempi della dominazione austriaca; erano monili di un oro rossiccio per l’ alta percentuale di rame contenuto e avevano un aspetto che faceva pensare ai gioielli celtici o etruschi.
Erano pesanti fino quasi a deformare il lobo dell’ orecchio, ma le donne di Garzeno ne andavano fiere.
Assunta sembrava una donna del Sud tanto era scura di pelle e di capelli e gli occhi nerissimi lampeggiavano nel volto.
Forse la sua bisavola era stata una sposa siciliana, oppure la discendente di una ninfa agreste sfuggita a una terra e a un mare, chissà quando, e sgorgata, polla trasparente, sulle montagne di Garzeno.
“ Mi piace lavorare la campagna. Io in casa non ci posso stare”.
Le piaceva stare sotto quel cielo, in alto. E quando parlavamo, mentre la ransa sostava un poco, guardava il paesaggio con gli occhi dell’ artista.
“ E’ bello questo monte, nè signorina Vera? Brensej l’è un bel mont”.
Brenseglio era più che un semplice agglomerato di cascine e fienili, c’ era anche una chiesina.
“ Di qui passava la strada Regina, quella fatta costruire dalla regina Teodolinda per andare nel Cantone dei Grigioni .La strada Regina veniva su da Dongo e passava per Garzeno e Brenseglio, poi andava in Svizzera”.
E nella tradizione orale garzenese quel largo acciottolato serpeggiante su per le montagne, a tratti perso sotto strati di terra e di foglie, e a tratti ancora ben delineato, era veramente la strada della regina Teodolinda, anche se, leggendo nelle storie locali dei paesi limitrofi, scoprivo che la strada Regina veniva stiracchiata per altre valli e per altri paesi.
“ Di qui passava la Regina Teodolinda con il suo corteo. E’ la verità. Ho sempre sentito raccontare questa storia dai nostri vecchi”.
Assunta, come sempre, non ha dubbi e mi parla anche della sua storia, di quando portava ai mont i bambini piccoli nella gerla, partendo a piedi alla mattina presto e ritornava alla sera, i piccoli sempre sulle spalle, dentro la gerle e i più grandicelli a piedi. E mi racconta che ai mont una volta era tutto un canto. La fatica era molta ma erano abituati fin da bambini a stare fuori sui prati.
“ Vede quest’ acqua?”- mi diceva- indicandomi un ruscelletto che scendeva giù dalle rocce poco distanti dalla baita del Doss e che s’ infilava dentro una minuscola cantinetta di sassi -
Questo ruscelletto entra e esce da questa cantinetta, e ne tiene il pavimento allagato per mantenere fresco il latte delle capre che servirà poi per fare il formaggio. Si può bere, è più fredda di quella che sgorga vicino alla baita”. Era una ghiacciaia naturale, il latte veniva posto sull’ acqua in larghe ciotole fino al momento di essere utilizzato per il formaggio. Assunta era bravissima nel farlo, io ne sento ancora il sapore.
Molti ruscelli rallegravano il Doss e uno, proprio vicino alla baita di Assunta andava ad alimentare un pozz, un fontanile, che in parte serviva da lavatoio e in parte da abbeveratoio, ma io, la mattina, per lavarmi andavo al ruscello più distante.
Vi tuffavo le mani come a rubare la linfa vitale di una creatura
e comprendevo la saggezza degli antichi popoli che consideravano divina ogni sorgente. E quando il sole picchiava andavo a bere all’ altro ruscello, quello più freddo. La sua freschezza mi scendeva lungo la gola e mi restituiva a una semplicità primordiale consentendomi l’ accesso ai segreti di un mondo che stava per sfuggire per sempre.
“ Sono tutte buone queste sorgenti, signorina Vera, ma la migliore è l’ Acqua gelta” (l’ acqua gelida) quella sulla strada per andare a Suma Him (sopra il fiume). Gliela insegnerà la Mariangela quando ci andrete.
Lì al Doss, tornai spesso d’ estate per trascorrere delle vacanze particolari. Dormivamo sul fieno ammassato nel fienile. Un materasso enorme alto quattro o cinque metri. Vi salivamo la sera con una scaletta a pioli, stendevamo della coperte pesanti e ci coricavamo tutti vestiti, perché di notte faceva molto freddo anche d’ estate. Tutto al buio, in mezzo al fracasso dei grilli. Tutta la famiglia si dislocava più qua o più là sull’ ammasso di fieno, a seconda delle preferenze. Io dormivo accanto a Mariangela, la figlia di Assunta e attraverso gli spiragli tra le pietre del muro, che lasciavano entrare un’ aria pungente, intravedevo il chiarore del cielo. Il sole poi al mattino ci s’ infilava prepotente a svegliarmi, ma quando mi alzavo, con una quantità di fili d’ erba attaccati ai vestiti, Assunta era già sui prati a falciare.
Il fruscio del fieno che si comprimeva sotto il nostro peso e che accompagnava ogni movimento si sarebbe impresso per sempre nell’ angolo più segreto dell’ anima, pronto a balzarmi fuori all’ improvviso, in seguito, nei momenti piatti della vita, a volte consolatore, a volte pungente con le sue pagliuzze secche.
Solo mia cugina Antonietta, allergica, non ne portò un bel ricordo e passò le vacanze tappandosi il naso e riempiendosi di pasticche, ma lei, molto più giovane di me, era già uno di quegli animali cittadini di oggi che, sempre più numerosi, appena si trovano lontani dall’ inquinamento si riempiono di bolle o incominciano a starnutire.
Assunta tornava dai prati a mezzogiorno. Facevamo la polenta o il riso o la pasta e poi completavamo il pasto con pane e formaggio di capra o di mucca o la salsiccia . Qualche volta si cucinavano in padella le patate “ rostì”, con pane raffermo e formaggio grasso delle Alpi e allora si ringraziava veramente il cielo per la bontà di quella pietanza dai sapori unici.
Dopo pranzo si faceva una sosta sotto l’ ombra, insieme agli altri proprietari di baite del Doss, e alle capre che pascolavano libere e che mi avevano preso fin troppo in simpatia perché avevo dato loro del sale. Poi ognuno ritornava al suo prato. Di solito di pomeriggio si doveva girare il fieno per farlo seccare dall’ altra parte. Provai anch’ io a rendermi utile ad Assunta e m’ impegnai a radunare il fieno insieme alle mie cugine, con i rastrelli di legno, ammassandolo in mucchi che poi il figlio maggiore di Assunta caricava sulle spalle e portava al fienile ad accrescere il volume del nostro mitico materasso.
Fu un’ esperienza indimenticabile.