Quando gli occhi puntati addosso ti ricoprono di vergogna, non basta abbassare lo sguardo per scomparire dietro quelle brutte facce schernitrici che deformano la mia persona.
Povero ragazzo di strada, da sempre marinavo la scuola, non ne capivo l’ importanza.
A cosa poteva servirmi imparare a leggere o scrivere se il mondo mi aveva già condannato, affibbiandomi l’ ultimo posto della scala sociale. Io così diverso apparivo agli altri, al punto da far ribrezzo e suscitare lo stesso fastidio che si prova a scacciar le mosche che appestano il pane, esse pur ritornano a infestare il cibo, si aggrappano strette a una briciola di avanzo.
L’ odore della povertà emana un puzzo insopportabile, trascorri il giorno a vagabondare nei dintorni di un paese semivuoto, solo come un cane randagio che si acconenta di rosicchiare un osso duro sino a dolergli i denti, ma pur rimane il languore della fame insaziabile lungo lo stomaco che brontola.
Quel senso di vuoto che prostra il fisico e ancor più la mente, mi rodeva dentro come il contrassegno della mia triste anima desolata. Parlavo con me stesso, in me confidavo i sogni impronunciabili, ombra di me stesso, nell’ inseguimento di passi che il sole del tramonto presto disperde nella polvere.
Chi ero io, giovane ragazzo di strada, vissuto senza nome, un nome certo che nessuno osava chiamare, un nome che echeggia continuamente nella testa e si riflette nella solitudine dei pensieri, un nome che muore ancor prima di nascere.
Con lo zaino in spalle e i miei pochi averi, mi guardo attorno, aspetto che qualcuno mi cerchi e sussurri parole di conforto, mi salvi dal deserto straripante in cui non c'è speranza, né un’ oasi di luce in cui riparsi dal freddo silenzio.
Non lasciatemi rinchiuso nella prigione dell’ emarginazione, quella da cui non si può evadere, isolato da tutti, circondato dal buio fitto che mi divora! Pur io esisto, cerco di emergere dal fondo della mia condizione, di sostenermi con le mie sole forze che non mi abbandonano.