Le prime luci del mattino sfogavano i loro raggi obliqui sugl’acquitrini che costeggiano i lidi ravennati sulle valli del delta del Po.
Entrammo sui sentieri limacciosi di canne marce in un paesaggio irreale. Un'immensa distesa d’ acqua e di cielo in un gioco di sfumature e pennellate di colori tenui di grigio e di verde sembravano rimarcare i confini della schiena emersa di un serpente piumato, che si distendeva sulle valli, per proteggerle dalle esondazioni del Grande Fiume.
Seguendo le linee emerse dei sentieri, rimanevamo stupiti, dei precari equilibri, segnati da perimetri di terra e di acque in continuo divenire e scomparire, a seconda delle stagioni.
La brezza, frizzante, che risaliva dal mare, creava visibili increspamenti dell’ acqua dentro gli spazi dei canali, fino a scomporre le piume degli uccelli acquatici, interrompendo, per un brivido di temporale, qua e là, i richiami rauchi dei gabbiani, mischiando, in un pastello di colori, i riflessi verde e cobalto dei germani, che facevano a gara con le piume rossastre degli svassi, in un anticipo della parata nuziale, dov'erano accese furibonde battaglie, fino all’ ultima livrea scoccata dall’ arcobaleno per spezzare il cuore dell’ amata e convincerla di essere lui, “ il buon partito”, la garanzia di una nuova occasione per la vita!
Sul confine opposto, ad un tratto, ci apparve la rara visione di una popolosa colonia di fenicotteri, intenti a competere al fango il maggior nutrimento, filtrando ritmicamente con il lungo becco, piccoli crostacei e larve di anfibi dai bassi fondali.
Ma un violento vociare lontano ci raggiunse, come il preannuncio di un temporale, che si rivelò, in breve, in un frusciare metallico d’ ingranaggi e di sorpassi borderline, in strettoie metafisiche, operate da decine di ciclisti inseguitori, e inseguiti. Fummo costretti a riparare in uno spiazzo fuori pista dell’ argine, per non farci travolgere. Nell’ attesa che passassero i centauri a pedale,abbiamo avuto il tempo di costatare d’ essere stati presi in ostaggio, dalla solita gara ciclistica domenicale. Quando l’ orda arrivò nelle vicinanze dello specchio d’ acqua , i fenicotteri, spaventati, s’ alzarono in volo. Come un lenzuolo, uno svolazzo rosa, strappato dal vento che si stende nell’ azzurro scontato del cielo. E scomparvero dall’ orizzonte visivo verso la barriera di luce bianca degli Appennini, imbiancati dalla tardiva neve, disegnando sul candido crinale dei monti, una linea marcata, una collana di perle rosa che risaltava fino alle saline di Cervia, creando effetti strobosferici che si confondevano e dissolvevano dentro i vapori delle ciminiere del petrolchimico ravennate. Ma le sorprese, di quella mattina, non erano ancora finite. Più avanti, ancora ammaliati dalla visione occasionale e inaspettata, imboccammo un sentiero che si districava sugli argini alti dei canali che delimitavano il fluire di acque più profonde e adatte alla navigazione di piccole imbarcazioni, dei residenti o da occasionali visitatori, per raggiungere destinazioni improbabili verso l’ entroterra o, più probabili, in direzione della foce per raggiungere, infine, il mare aperto. Un cartello d’ informazioni topografiche con la mappa del territorio, aveva attirato la mia attenzione. Era attaccato sul recinto metallico di una villetta, con su scritto: Oasi felina. Tanto bastò a farmi comprendere il comportamento idilliaco di quei gatti randagi che avevo incontrato appena imboccato il sentiero, che si crogiolavano pigramente sugl’ argini, cogliendo il tepore di un inverno, anomalo e incantatore.
Nel giardino della villetta, al margine dell’ oasi felina, due grandi alberi di betulla, incrociavano i rami, per trattenere una casetta di legno, in alto quanto bastava per lanciare nel cielo la meraviglia di ogni bambino. La donna che usciva dal cancello, era una cinquantenne, dall’ aria della professoressa di scienze, non abbastanza curata nell’’ aspetto. I capelli, erano castani, quasi biondicci e non erano molto in ordine, ma aveva una luce strana dentro gli occhi, che la rendeva euforica. Quasi ballando di contentezza, trasportava alcuni oggetti verso l’ automobile che aveva parcheggiato fuori, nello spiazzo erboso, sotto l’ argine del canale di fronte.
Appena mi scorse, disse che potevo ritenermi fortunato, perché aveva fatto una grande scoperta, ed aggiunse che stavo per entrare nel guinness dei primati, poiché sarei stato il primo a vederla in anteprima. Quindi, rientrò verso la casa e scomparve.
Nell’ attesa pensavo quale sorpresa straordinaria poteva riservarmi una sconosciuta incontrata per caso sul territorio di un'oasi felina.. E il mio pensiero vagava cercando d’ indovinare a chissà quale atto umanitario aveva dato corso, come il soccorso veterinario operato su felino raro, o su un volatile pregiato e Magari un falco pescatore! O un gufo reale!
Niente di tutto questo!
Ritornò con un vaso di terracotta, trattenendolo in grembo con la cura che di norma si riserva solo ad un neonato.Dentro il vaso, aveva trapiantata un’ orchidea selvatica che ci disse appartenere ad una varietà autoctona, di Marina Romea. E, che “ tutti” avevano dato ormai per estinta.
Ci disse che la specie si chiamava barliss. Se non ricordo male… Un nome misterioso e vagamente esotico! Una bellissima pianta, dalle infiorescenze verdi e violacee che avvolgevano lo stelo verde marrone per un terzo della sua lunghezza, formando una capigliatura di lapislazzuli turchini e avorio, bordati di carminio colato. Il suo profumo di vaniglia e liquirizia offuscava, per il tempo di un sospiro, l’ acre sapore di zolfo che arrivava dalle raffinerie del petrolchimico, sul fragile ecosistema del delta e sui bassi fondali dell’ Adriatico.
Quella donna, era felice perché aveva trovato l’ ultima regina autoctona, la specie floreale suprema, che adornava (un tempo) il sottobosco delle pinete salmastre!
Era felice, perché aveva trovato l’ ultimo esemplare d'una regina senza reame! E adesso la portava ad una mostra di esperti, soddisfatta di poter dimostrare in faccia ai botanici, che non era vero che si era, già estinta! Almeno, non prima che l'avesse strappata lei!