Caldo, come può esserlo il grembo di una madre, così quel giorno d’ inizio estate ti accolse, al termine della tua corsa, quando la vita ti consegnava esausto a chi ti stava aspettando da tempo. Professore emerito, affermato chirurgo, padre esemplare, marito un po’ meno. Come sempre di corsa, ti arrampichi su per le scale della facoltà di medicina e chirurgia. Il temporale appena passato ti ha rovesciato addosso secchi d’ acqua gelida. Rabbrividendo ti dirigi nel tuo studio, veloce così come sei arrivato, ti asciughi alla bell’ e meglio.
Perdere tempo per te ha sempre avuto un solo significato: rimetterci, sprecare, ma soprattutto non guadagnare. Istintivamente, e senza farci troppo caso, premi col palmo della mano il tuo petto, storci un po’ la bocca, strizzi gli occhi, il solito dolorino. Un respiro profondo e tutto passa, sei pronto ad affrontare i tuoi studenti, ad entrare in quella gabbia di leoni famelici.
Anche tu sei stato un leone famelico proprio come loro. La tua carriera arrivata all’ apice dopo anni ed anni di studi, spinto dalla convinzione che ogni essere umano ha potenzialità infinite e che, se si perseguono le proprie aspirazioni con impegno, si può raggiungere qualsiasi traguardo. Quanti giovani sono passati davanti ai tuoi occhi da quando due anni fa hai deciso di abbandonare il bisturi per dedicarti esclusivamente all’ insegnamento. Eppure eri un grande! Ti chiamavano il “ dio cardio- chirurgo” chi meglio di te sapeva affrontare interventi come: le coronaropatie, o i by- pass arteriosi, e i nuovi trattamenti con le cellule staminali, l’ ablazione della fibrillazione atriale, il trapianto cardiaco, un intervento importante e delicato.
Avevi potere di vita e di morte nelle tue delicate e quasi femminee mani. I pazienti si affidavano completamente a te, così come un bambino si affida ai genitori, ciecamente, confidando nei loro poveri cuori stravolti che a te potesse importare davvero di loro.
Avevano ascoltato attentamente le lodi che altri, operati già da qualche tempo, tessevano di te, e tutti quei termini incomprensibili imparati a memoria e ripetuti da paziente a paziente, come una sorta di trasmissione orale, di quel patrimonio culturale proprio dei reparti d’ ospedale. Eri temuto e odiato da molti colleghi, venerato e amato in ogni senso da infermiere e giovani specializzande: i primi invidiavano i tuoi successi e la tua innata bravura, le seconde spesso allietavano le tue pause al buio di stanzini pieni di scope e detersivi e ovunque ci fosse il modo per stare soli, quello era il luogo giusto per ciò che agli occhi di molti, compresi i pazienti altro non era, che un circo del sesso, con l’ unico scopo di ottenere un trattamento di favore da parte tua. Tu, il grande luminare, Tu, il dio che aggiusta i cuori, Tu, un emerito fallimento, quando appeso il camice vestivi i panni di marito.
Una moglie, sposata solo per aggiungere fama e soldi al tuo gruzzolo, che già prima del matrimonio stava crescendo a vista d’ occhio. Lei figlia di un noto avvocato, ovviamente laureata in giurisprudenza. lavorava, come spesso accade, nello studio di famiglia.
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Una donna colta, tua moglie, certo un po’ snob e freddina, ma soprattutto priva del benché minimo sentimento di gelosia nei tuoi confronti.
Forse era questa sua indifferenza a spingerti continuamente tra le braccia di altre donne. L’ unica cosa che vi univa erano i figli, per i quali niente era mai abbastanza: scuole private, vacanze studio, tate specializzate, tutto affinché i vostri pargoli imparassero le buone maniere e magari anche le lingue.
Tutta la tua vita concentrata sulla carriera, e prima ancora sullo studio, notti passate insonni sui libri, spronato continuamente da tuo padre, nato e cresciuto in una famiglia di medici, avvocati, e notai. Tu non potevi che eccellere, non avevi scampo. Com’ era lontano il tempo in cui bambino potevi giocare, cosi come fanno tutti i bambini, sudato e felice dopo aver corso con i tuoi compagni, ignaro della fatica, della rabbia e dell’ arroganza futura, eri cosi sereno tra le braccia avvolgenti e calde di tua madre, in quell’ abbraccio pieno d’ amore che mai più avresti ritrovato. Attaccato al suo seno avevi tutto, niente più ti serviva, niente altro ti avrebbe mai saziato meglio. Ricordi? Riesci a vedere il bambino che eri? E quella felicità, fatta di piccole cose, la riconosci?
La tua mano stretta al petto, il volto, trasfigurato in una smorfia che tante volte hai visto sul viso di chi, su una barella cercava di vivere, tutto si confonde, ieri, oggi, e sei cosi stanco, disintegrato in mille piccoli frammenti
Il grande medico, lo studente zelante, l’ amante nel circo ospedale, il marito disinteressato ed ignorato, tanti piccoli te senza più una meta, sdoppiati, triplicati all’ infinito, unico punto d’ arrivo il grembo accogliente di tua madre.
In un caldo giorno di inizio estate.