| Il bercio concitato di tremebonde porpore
nunzia l’abbordo di piumati elmetti
rutule martinelle unisone
assordano becche pieghe trasteverine
Il barullare confuso di babelici armigeri papalini
è foriero di una storia già scritta
mentre un niveo vessillo sventola sulla torre campanaria
segnacolo della capitolazione romana
All’atteso sboccare del certame
nell’anelato deporre d’arme e ferro
sabaude braccia, pietose, sollevano da terra i feriti vinti
L’Italia s’è fatta... e anche gli Italiani |
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Comandante di una ciurma fantasma conduco la mia fenice
lungo un firmamento di cinabre stelle
ed acque salmastre abitate da oscuri prodromi
che lambiscono lo scafo e la stanca mente
con mestizia il vascello della sopravvivenza
solca lento un mare di perniciosi pensieri
mentre la vorace teredine generata da insalubri ubbie
strazia il senescente fasciame.
Improvvisa s’infuria la procella lambendo i confini della ragione
e inficiandone il discernimento
abbarbicato al timone osservo l’oscillare del pennone
e il lacerarsi delle laide vele.
Il versiero s’azzangola nel mio glabro cranio
e l’afrore del suo alito scatena l’ambascia
mentre oppongo le ultime inani resistenze
all’inevitabile subisso
la logora chiglia improvvisamente s’inclina
segnacolo dell’imminente capitolazione
e inabissandomi con la mia fenice
sforzo un ultimo sorriso prima di sbasire.
Agucchiato alla mia chimera proclamo
l’abiura di me
fiducioso nel prossimo
rinnovarsi dell’antesi. |
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| Cosa sappiamo della morte?
accadimento che seppur non ci appartiene ci accompagna,
aderenza che abbarca le nostre spalle di infossate memorie.
Vile e impietosa s’ammanta di nero,
leva la falce su teneri germogli a capolinea di un viaggio negato.
Lorda pagine bianche mai scritte alla stregua di immature spighe di grano
seguendo con occhi vacui scabre anime che volteggiano su candide bare.
Fasciata di bianco dona pietade a membra avvizzite, dolenti, invalide.
Con un palmo sulla fronte cala le palpebre su svigoriti occhi,
mentre l’altro, nel petto, serra il cuore all’ultimo battito.
L’alito si disgiunge dalle sofferte spoglie disegnando un ultimo sorriso sulle logore volte.
Paradossalmente epicurea siede di fronte al fato,
veste abiti da giullare nel giocare la riffa.
A ogni giro di ruota recide il perdente
e non conta età, colore, sesso o credo.
Cachinno è il verso che accompagna il calare dell’inattesa lama.
Cosa sappiamo della morte?
Accadimento che seppur non ci appartiene,
ci accompagna,
tracciando dolorose croci sull’abaco assiso nel nostro cuore.
Nulla sappiamo di questo svanire nell’ignoto inatteso o invocato,
sino al giorno in cui
verremo condotti dall’arcangelo Michele
a ricongiungerci, commossi, alle nostre memorie. |
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| L’empatia è parassita nella mia anima
invasiva ingloba utilitarismo e raziocino
condanna a veglia eterna la mente affranta da belluine grida.
L’empatia è liquido dissetante eppur venefico
abboccato d’aulente assenzio impreziosisce la durame
adombrando ragione.
L’empatia è senno che non ravvisa approdo
vascello alla deriva nel pelago dell’umana afflizione
sottomesso al maroso.
L’empatia è algia assisa al cuore
pieride e guida della mia mano
nello scarabocchiare candidi fogli bianchi. |
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Io non ci sto;
all’allinearsi come soldatini di piombo lungo la passerella delle lusinghe, avulsi dalla tipizzazione che distingue.
All’inguattare unicità dimentichi dell’intimo sentire.
Io non ci sto;
al narcisismo dell’apparire ad adombrare l’essere.
Umanità preda della globalizzazione e dei media, succube duplicato dell’immagine contingente.
D’aspetto e con vesti deliberati dall’olocenico guru.
Io non ci sto;
all’indossare la pirandelliana maschera, infrattare astenie e buscherare realtà.
Cancellare la diversità dell’essere fonte dell’evoluzione umana, nelle sue espressioni più eccelse come nelle più umili.
Io non ci sto;
all’immagine riflessa sullo specchio cangiante di fate ignoranti o grottesche streghe.
All’apparire oppongo l’essere dell’uomo gasindo, semplice e limpido come zampillo di sorgente spontanea. |
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| Elegante gazzella danza leggiadra,
lambita dalla flebile luce dell’elegiaca luna
brillanti gli occhi, stelle riflesse nell’ardente cuore,
varchi contigui all’anima gentile
eufonia di flautato lessema, ammalia e rapisce,
come bucolico concerto di grilli e augelli all’alba.
Aggraziata pantera avanza silente,
baciata dal lussurioso sole
occhi famelici, cinabri rubini incastonati nel marziale sguardo,
limite prossimo al lussurioso anelito,
scompaginante fonema, turba l’anima cheta,
voluttuosa danza di languide epigee ninfe.
Ineffabile donna, divina creatura,
verdeggiante prato accarezzato da impetuosi venti,
eloquenti occhi, perle incastonate in un circolare abbraccio,
valico accosto al sublime sentire
bercio affrancato dalla salica carta,
libera danza di lucciole fra incoronate càule contigue. |
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| Le mie gambe immobili colonne di marmo,
la pavidia che m’immolle e mi frena,
il treno è partito e io calpesto il selciato.
Il salato degli occhi traccia una smorfia sul mio volto,
fragile donna che non conosci perdono
ti dono questa faccia abrasa dal dolore.
La tua falce alzata a mozzare l’ultimo respiro,
io, incapace di alcuna tiepida reazione
a spiare dalla fessura dell’uscio la mia vita che scorre via.
Aspettare la morte a spegnere l’amore,
gli occhi che hanno accompagnato mille eventi
si illuminano di umide stelle.
Le membra assalite dagli ultimi tremiti,
la tua voce non suona melodie,
non voglio così morire.
Fragile donna che non conosci pietà
volgi per l’ultima volta il tuo sguardo su di me,
osserva il tuo nome scritto a fuoco sul mio petto.
Illumina i tuoi occhi al profumo di un ricordo,
io,
sorriderò per non morire,
sorriderò per i giorni sognati che mai verranno.
Ti porgo il capo, chiudo gli occhi sereno,
la tua falce a mozzare l’ultimo respiro.
Morfeo non mi negherà l’immagine di te. |
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| La progenie è come tenia amorevolmente allevata nelle viscere.
Ineluttabile voragine nella quale fluisce vigore e amorevolezza,
allibra le sue matrici nel ruolo più rassicurante,
ravvisandole scevre da umane ambizioni.
Taumaturgica sanguisuga ben salda sul petto,
nella regione accanto al cuore,
germoglia,
divenendo giudice e carnefice della carne natale
imponendo il cilicio per le dissentite scelte
inconsapevole del potere che esercita sulla sua mente.
La progenie,
stringendo la pisside colma di insolenza,
fiorisce sino a diventare adulta.
Dal suo congiungimento nasce una nuova discendenza
che assisa al petto limita il respiro
imponendo ravvedimenti, seminando incertezze.
L’uroboro,
in perpetuo divenire,
scandisce l’inizio e la fine dell’ennesimo ciclo.
E la progenie affranta e in lacrime al capezzale di quel corpo esanime piange abbracci negati riscuotendo l’ultimo amorevole sorriso
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Il privato è l'ambito più narrato
da chi vuole esser ricordato.
L'entourage indiviso
non compiace al narciso.
Edonismo accigliato
del papavero ignorato.
Rinomanza mancata
nella privacy rispettata.
Tu di lui non ti vuoi occupare
stanne certo, ti verrà a cercare.
Cicalecci ormai assopiti
dal vanesio inaspriti.
Chi il privato vuol conservare
un nessuno dovrà restare.
Notorietà minacciata
nella nomea immacolata.
Ho capito cosa fare
vado in piazza a scoreggiare. |
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Flesso sulle ginocchia in riva al greto del ruscello
abulico e indolente osservo le parole
che s’azzangolano nel mio cranio
dopo aver abbandonato la mia assillata mente.
Geloso e iracondo invidio prolifici autori scevri
dall’impietosa censura che m’involge.
L’anelato del mio narrare viene inficiato
dall’incapacità di deliberare meritevoli metafore
ravvisando nelle mie bozze indegni sproloqui
scaglio al vento intonsi fogli bianchi
alla guisa del vernale disperdersi di vizze foglie.
Carnefice e vittima della mia criticità
biasimo blasfemi altrui scritti per poi precipitare
nel disprezzo verso il peculiare mio narrare
come anacronistico martire.
Flesso sulle ginocchia in riva al greto del ruscello
osservo lo scorrere giocoso di freschi scritti
abbandonando alla fiumana scarabocchiati luridi fogli
alla guisa di frangibili barche di carta. |
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Nell’umano ho osservato
la passione allo sparlato
il bacato socializzare
che diviene vero insozzare.
Gioia e brama del pettegolezzo
nel narrare con disprezzo
delle gesta della vicina
come di quelle della cugina.
Del capoufficio poi si narra
l’abitudine bizzarra
di vietare alle impiegate
di tener le gambe accavallate.
Se poi la moglie del panettiere
s’appartasse col salumiere
quante cose da inventare
quante balle da narrare
Tanto appaga la maldicenza
da non poterne fare senza
poco conta chi si mira
l’importante è la cospira
La gioia e il gaudio della comare
Nasce nell’altrui beffeggiare
con il quotidiano vilipendere
chi ignaro, non si può difendere.
Cieco e sordo, il maldicente
non nota proprio niente
dalle corna personali
ai suoi incerti e oscuri natali
Quanto sciocca è la gente
che del proprio nulla sente
parla e sparla immoralmente
mentre perde il convivente |
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| L’azzurro del cielo è troppo luminoso per due soli occhi
Il mondo troppo vasto per due sole gambe
L’ardente sole è troppo caldo per una sola pelle
Il flautato cantico degli augelli troppo allegro per due sole orecchie
La fragranza del pane è troppo intensa per due sole nari
La percezione di un amore inudibile per un solo cuore
La costruzione di un amore è impossibile per due sole braccia |
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Sono d’autunno, di foglie vizze che precipitano al suolo silenti
monocromo stinto dell’avviarsi al letargico sonno.
Sono d’autunno d’ ubertose ricche viti e d’abboccato mosto
del dimenarsi di scalze fanciulle in annosi tini.
Sono d’autunno dei primi freddi che all’addiaccio suggeriscono termine
dell’acquerugiola e del fortunale, di un’indolente pallido sole.
Sono d’autunno di deschi ingemmati da risa e rinnovellati ludi
di rubicondi vini, d’aduste carni e abbrustolite castagne.
Sono d’autunno e di foglie stinte sbarbicate da assopiti rami
d’un pungente refolo che vellica la negletta campagna.
Sono d’autunno di cieli plumbei e d’ inopinati scrosci d’acqua
di camini ridestati dagli accecanti barbagli di crepitanti resine.
Sono d’autunno, di quiescenza e fanciullesca celia
di sapidi frutti, d’intimità e di sodale calore.
Sono d’autunno
del ventotto settembre
e di procrastinati amori |
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| Guardi quel maschio ancestrale, epicureo gaudente fra le tue calde braccia di messalina,
divenire asceta virtuoso nel baciare i propri figli e la madre di essi.
Come fragile anfora dall’apparente durezza colma di inezia
in ogni donna non consanguinea vede la femmina dissoluta alla quale nulla è dovuto.
Epidermica creatura incapace di ravvisare oltre la superficiale parvenza!
Impalpabile come una piuma che giunge al suolo il tuo urlo di geisha, afono e silente,
scuote l’anima accompagnandolo con lo sguardo mentre varca l’uscio
gli occhi e il volto, disincantati e fieri, di chi ben conosce l’uomo.
Luminose stelle cadenti tracciano una scia luminosa sulle tue guance scavate dagli anni e dai perituri amori
Nello specchio il tuo viso madido di lacrime salate è riflesso come luna e stelle in un quieto stagno.
Maschio ancestrale, irresoluto, incerto, vile, navighi alla ricerca della donna valchiria,
approdando poi con la fragile chiatta dell’insicurezza nella baia delle vergini...
Ti nutri del suo corpo di messalina straziandone l’anima con un vacuo "ti amo"
e già ne hai rigettato il pensiero.
La geisha rannicchiata ai piedi dell’ancora caldo giaciglio, ginocchia piegate al petto
mani sulle guance, tristemente si accarezza il volto attendendo il nuovo tramonto.
Lo sguardo edotto e disilluso di un pierrot nella grandiosa cornice di luna e mille stelle,
amato e cantato,
per il breve tempo che il sole compie l’eterno rito. |
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Bighellonando per le antiche vie d’Ancona
giunsi al chiosco di una treccona.
In visibilio e con incommensurabile emozione
la vidi li, adagiata al lurido bancone.
La treccona gelosamente la detiene,
ma lei, a quell’ambiente non appartiene.
Affascinato da cotanta bellezza
me ne impossessai con immoderatezza.
Le sue forme, accentuate da curve eleganti
mi suggerirono pensieri intriganti.
La schiusa avvenne in labbra contigue e aderenti
affermando nell’incontro il miglior degli abboccamenti.
La feci mia con prepotenza
per quietare l’impellenza.
Mandorla e fruttati dalla lingua al palato
mi donarono un piacere inusitato.
Tu che mi leggi con stupore
sei caduto nell’errore.
Ma a che mai stavi pensando
mica parlavo della moglie del Nando.
Divertito tossicchio
mentre finisco di bere il mio verdicchio. |
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Sono Moreno nella vita reale e never- more (assoluta negazione) quando esprimo emozioni in parole.
Nato a Bologna nel settembre del 1959, vivo nelle dolciniane valli della Valsesia.
Ottimo gourmet amo la buona cucina abbinata a buoni vini.
Questa mia passione culinaria è stata per un importante periodo della mia vita un mestiere oltre che un amore.
Ed è a questo amore che paragono la poesia.
Come per un buon piatto si comincia dagli ingredienti che devono essere di prima scelta, freschi, profumati. Le parole... una ricerca che non stanca mai perché la nostra bellissima lingua ha davvero un termine per ogni sfumatura di pensiero e di emozione, e le parole giuste vanno ricercate, quasi scovate, come l’ingrediente speciale che renderà unico il piatto.
Vanno poi uniti i vari elementi, a volte arditamente, aggiungendo un pizzico di follia e l’intuizione giusta affinché ogni ingrediente esalti l’insieme.
Fondamentale è indubitabilmente la presentazione, che deve essere ricercata ed attirare i sensi e l’anima, l’abbinamento con elementi esterni, un’immagine o una musica particolare, ritengo che siano come un buon vino che accompagna il “piatto” senza mai far perdere di vista i sapori che gusteremo.
E quando si unisce passione, ricerca, originalità, quando di ogni passo della preparazione si ha attenta cura, il tutto può finalmente essere mostrato agli occhi del mondo, con quel misto di emozione e di trepida attesa del giudizio e della condivisione di coloro che si avvicineranno al risultato della mia creazione.
E voglio aggiungere infine che la poesia per sopravvivere necessita certo di persone capaci di trasmettere emozioni ma ancora di più di empatici lettori.
Seppur da tempo abbia preferito la collaborazione, piuttosto che la partecipazione a concorsi letterari, i miei scritti hanno ottenuto generosi consensi, essendo stato premiato, tra l’altro, presso l’università di Tor Vergata e più volte in Campidoglio a Roma.
Recensore delle liriche partecipanti a vari concorsi, sono stato a mia volta recensito Dalla Dottoressa Livia Di Pietro, esperta di didattica della poesia e promotrice d’eventi culturali nella capitale trasteverina.
Attualmente, collaboro a vari concorsi di poesia e mi presto come curatore di pubblicazioni
editoriali.
Dei miei aforismi ve ne è in particolare “Amare è gioia del dare e stupore del ricevere”.
e- mail;
Buona vita a chi mi legge
Viviamo d’un fremito d’aria, d’un filo di luce, dei più vaghi
e fuggevoli moti del tempo, di albe furtive, di amori nascenti,
di sguardi inattesi. E per esprimere quel che sentiamo
c’è una parola sola: disperazione".
Vincenzo Cardarelli
Oggi 23 agosto 2011 esce "never- more", la mia prima raccolta di poesie divenuta libro è acquistabile (oltre che sul sito ilmiolibro. it) nella libreria Feltrinelli on- line e ordinabile presso ogni punto vendita della Feltrinelli. |
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