Pubblicare poesie

Come eravamo
di Carlo Fracassi

Le 29 poesie pubblicate nella raccolta

Asini e bestie! (come eravamo)

Impressioni
Asini e bestie! (come eravamo)
Ogni giorno passava per la via
un birocciaio con il suo carretto,
stracarico di sabbia e mattoni,
trainato da un vecchio asino stanco.
L'asino era pigro e lui lo frustava
a sangue, finché, lentamente
riprendeva il cammino.

Ogni giorno
frustate, urli e bestemmie
che incendiavano l'aria
sotto un sole rovente.

Ma quella volta l'asino si puntò
e non volle saperne di proseguire.
Non valsero le frustate e nemmeno
le randellate che con un bastone
l'uomo gli affibbiava di gran lena.

Il birocciaio scese dal suo posto
e s'avvicino all'animale nell'intento
di trascinarlo per la cavezza ma questi
gli assestò un morso all'orecchio.

L'uomo sanguinante
smise di bestemmiare
e pianse.

Poi, borbottando sottovoce frasi
incomprensibili, estrasse dalla
tasca dei pantaloni un fazzoletto
legandoselo alla testa.

Prese il sacco del fieno
e lasciò che l'asino si sfamasse,
poi prese l'acqua dal recipiente
e lasciò che l'asino si dissetasse.

Salì sul carretto, prese le redini e
con un fil di voce disse: "Dai va là!"
L'asino riprese il suo cammino,
mentre il birocciaio continuava a
lamentarsi ma senza più urlare.

Da quel giorno...
l'uomo, più non frustò,
l'asino, più non puntò.
Finalmente,
l'asino e la bestia
si erano capiti!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 14/12/2009 00:08 10 6073

Boccatorta (come eravamo)

Uomini
Boccatorta (come eravamo)
"Boccatorta"
era il decano nella sua professione,
un vetturino con tanta passione,
col suo cavallo ben addestrato
sempre pulito, bello e strigliato.

Era un tipo molto sanguigno,
con la sua boccia di grande vitigno.
Di notte alla stazione
s'attardava a tutte l'ore
nell'attesa di probabile avventore
che col treno arrivava
e lui se lo portava.

Ma una notte di nebbia,
gelida come d'inverno,
era il primo novembre,
la sua notte d'inferno.
Prima di mezzanotte giungeva
l'ultimo treno sulla ferraglia,
poi tornava a dormire
nella sua casa di paglia.

Ed ecco s'avanza un uomo stranito
senza fardello ma bene vestito,
sfoggiante un lungo mantello
foderato di rosso ed un nero cappello.
"Mi porti alle Celle al numero 100,
le pago la corsa col supplemento."

"Mi scusi Signore ma è fuor di città
e con 'sta nebbia non ce la fa,
non si vede niente non vorrei
che il cavallo facesse incidente."

"E' a mezzanotte che devo arrivare,
mi porti là presto, non posso tardare!"

Al che Boccatorta pensò all'interesse
e lo fece salire sul suo calesse,
dicendo fra sé:
"Adesso gli chiedo 2000 lire
voglio vedere se ha niente da dire."

Arrivati alle Celle al numero 100,
il postiglione rimase sgomento
davanti alla cancellata del cimitero,
vecchio maniero d'anime morte,
che il 2 di novembre le vuole risorte.

L'avventore da sotto il mantello
estrasse un pezzo da 10000 lire
con una lentezza che parea d'impazzire.
"Ecco il suo resto e grazie Signore!"
Una campana batteva lugubri ore.

"Tieni pure mio caro,
dove io vado
non serve denaro!"
E quell'uomo nel suo mantello,
ch'appariva più smunto e più snello,
sparì nella nebbia oltre il cancello.

Boccatorta rimase quasi stecchito,
non per il freddo ma per il sentito.
Frustò la sua povera bestia
per fuggir da quella nera sorte,
certo d'aver visto in volto la morte.
Giunto a casa prese uno specchio
guardandosi in faccia,
se della paura c'era ancor traccia,
solo i capelli un po' incanutiti,
non più rossa la pelle ma smorta
e la sua bocca sempre più torta.

Ai colleghi raccontò l'accaduto
ma d'alcuno fu mai creduto.
Chiese, allora, se l'avevan visto
partire con l'uomo del mantello.
"Sì" gli risposero tutti in coro
e dissero che parlava da solo,
facendo pure l'inchino
alla sua bottiglia di vino.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 21/01/2010 12:21 13 3666

Brutti, sporchi e felici (come eravamo)

Riflessioni
Brutti, sporchi e felici (come eravamo)
Addio omino dei bei tempi felici,
quando bastava darti
un vecchio quaderno di scuola
per avere in cambio un cartoccio di lupini!
Sul tuo furgoncino a pedali,
un berretto da marinaio con visiera,
una maglia di lana a mezze maniche
ed un fazzoletto rosso annodato al collo,
passando d’estate fra i viali alberati,
lanciavi il tuo richiamo:
"Lupinaiooo...".

Noi bambini correvamo a prendere
un vecchio quaderno di scuola,
magari quello dei compiti per le vacanze
appena cominciato con qualche pigro tema
e tu in cambio ci davi una manciata di lupini
avvolti in un cono ricavato dai fogli del quaderno.
A noi spettavano i fogli scritti... erano lupini
all’inchiostro, ma non andavamo troppo per il sottile,
tanto la buccia non si mangiava e con noncuranza la
buttavamo a terra, tanto ben presto tutto sarebbe
sparito fra la polvere della strada e il bordo dei fossi,
poi di notte i topi avrebbero fatto il resto.
Scarti grassi a quel tempo non se ne facevano!

Ai ricchi milanesi in vacanza, invece, occorrevano
dieci lire per una quantità di lupini il doppio della nostra.

Eravamo poveri in canna, secchi come uno scheletro,
brutti come il demonio, zozzi come il letame, ma felici più di un Re!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 25/11/2009 19:02 13 4508

Due uomini e una gamba (come eravamo)

Riflessioni
Due uomini e una gamba (come eravamo)
La linea ferroviaria taglia in due la mia città
e nella bella stagione, da un lato alberga
la bolgia magmatica del mare, un cuore
che pulsa all'impazzata giorno e notte
senza un attimo di tregua, dall'altro risiede
la quiete notturna del centro storico.

Durante le sere d'estate, spesso, passeggio
sognante fra quei vicoli stretti e scarsamente
illuminati come ai tempi della mia
prima giovinezza vissuta in città,
quando ebbi l'avventura di fare amicizia
con dei personaggi straordinari, residenti
in un borgo popolare posto s'un crocicchio.
La prima via, è un lungo budello di case a schiera,
senza soluzione di continuità, con finestre e
portoni lillipuziani e non più alte di un cammello;
la seconda, inizia con una chiesetta e termina
con un'osteria, unica gobba naturale,
larga quanto la schiena d'un elefante;
infine, la terza che ad allungar un braccio
dalla finestra tocchi le tette della dirimpettaia.

Lì, al fresco della sera e la luna che rischiara
socchiudo gli occhi ed ancor rivedo quei
personaggi da favola che vivacizzarono
le mie verdi stagioni, vagabonde e spensierate.

Ma or dunque vi voglio raccontare di Luciano
lo zoppo e di Quinto orbato agl'occhi, titolari
di una legatoria ove intrapresi, si fa per dire,
il mio primo lavoro d'apprendista "stregone".
Mentre ricucivamo vecchi libri mi dissero:
"Tu che ci vedi bene e hai le gambe buone,
domani va a Bologna a far spesa per la bottega".
Perché, proprio io? Domandai.
Mi raccontarono che, anni addietro, recatisi a
Milano, presso un punto vendita a due passi dalla
stazione ferroviaria, per comprare materiali
di lavoro introvabili dalle nostre parti, Luciano
scivolò sul selciato fangoso, rovinando a terra
e Quinto, che si teneva stretto al suo braccio
gli cadde sopra di culata sulla gamba fasulla,
come sacco di farina cade; il tutto sotto una
pioggia scrosciante che scendeva a catinelle.
Rialzatisi a fatica, con l'aiuto dei passanti,
Luciano si sfilò dal femore la gamba di legno,
che rompendosi alla giuntura del ginocchio
non lo poteva più sostenere.
Così Luciano, con quel cimelio sottobraccio,
reggendosi su Quinto che gli era avvinghiato
come un serpente sulla liana, entrò in negozio.
Il commesso a vederli così conciati, bagnati fradici,
l'uno arrancando e l'altro con le mani avanti
i muri strisciando, cominciò a chiamare a gran voce
il padrone che stava nel retrobottega;
questi accorse allarmato ma riconosciutili,
proruppe in una fragorosa risata
che al pensiero, ancor da quelle parti echeggia.

Fin qui tutto bene, direte Voi, ma non vi dico quando
i due dovettero ripercorrere quei duecento metri
che separavano il negozio dalla stazione!
Luciano con la mano sinistra portava la gamba,
puntellandosi col braccio destro sulla spalla di Quinto
che a sua volta teneva sottobraccio due grossi
e lunghi tubi di cartone in cui erano contenute
le preziose pergamene per la rilegatura
...ma per fortuna...
nel frattempo, aveva smesso di piovere
e il tempo si rimetteva al bello!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 26/11/2009 13:32 8 3941

Il becchino (come eravamo)

Uomini
Il becchino (come eravamo)
Mio padre raccontava dell'Ossicini,
collega in ferrovia che dopo trent'anni,
né per gioco o per malia
era ancora manovale.
Era omone grande e grosso
ma balbuziente a più non posso;
di forza erculea e bevitore,
due metri circa la sua stazza,
mai ch'avesse avuto una ragazza.
Aveva gambe e braccia da orango,
pareva una giostra volante a ballare il tango.
Larghe spalle, collo taurino,
in una notte di baldoria
si scolò una mezza botte di vino.

Tante furon le avventure sue
che raccontarle tutte
ci vorrebber vite due.
Ma la più bella che vi voglio
qui narrare è che l'Ossicino,
senza mai il becco d'un quattrino,
per lo stipendio arrotondare
il becchino era il suo fare.
A quel tempo era costume
i morti vegliare in sacrestia,
con pochi spiccioli gli eredi
incaricavano qualcuno e così sia.

Sicché quella sera l'Ossicini,
già alticcio, mamma mia,
arrivò accompagnato dal compare
Scatassi in sacrestia.
Questi non era uomo di mestiere,
ma solo disoccupato e malandato
che poi andava a bere all'osteria.

Per passar la notte, non a torto,
portaron seco ogni gener di conforto
donato dai parenti generosi e riconoscenti:
porchetta, piada e salamino,
pollo arrosto e pecorino,
faraona, storni e fichi,
di Sangiovese sei litri.
Tabacco quanto basta
e le carte nella tasca
per ammazzar la notte dura;
questo solo, fu lor cura.

Misero tutto sul tavolo
vicino al catafalco
ed al mangiar diedero l'assalto.
Finita la cena e l'ennesima partita,
anche il vino era finito, per Aita!

Allora l'Ossicin disse all'amico:

"A vagh a to' un pera ad boci,
isé am sgranchés agl'osi"
(vado a prendere un paio di bottiglie
così mi sgranchisco le ossa)

Ma lo Scatassi suggestionato dall'ambiente,
col terror di rimanere vicino al morto,
anche qui non gli si può dar torto,
rispose che sarebbe andato lui stesso
immantinente, a casa a riempir il recipiente.
Al nostro eroe la cosa non passò inosservata
e maturò un'idea geniale,
della sua vita la più gran bella trovata!
Prese la salma, l'adagiò seduta in confessionale
e senza pensar che la cosa potea far male,
si distese nella cassa, reprimendo la sghignassa.

Tornato l'amico d'avventura,
trafelato per la corsa e la paura,
vide il compare seduto nell'oscurità
del confessionale e gli porse un gran boccale.
Vistolo immobile e credendo
che volesse fingersi morto gli disse:

"Dai bév, nu fa' e pataca!"
(Dai bevi non fare il fesso)

Contemporaneamente l'Ossicini
s'alzo a mezzo busto dalla bara
e, con voce tetra e amara, rispose:

"Si'n bév lò a begg me!"
(Se non beve lui bevo io)

Allo Scatassi gli prese un colpo secco...
cadendo a terra
si ruppe del naso anche il becco,
e superfluo dire,
ci volle del bello e del buono
per farlo rinvenire!
Da quel giorno il poverino
alle mani un tremolio ebbe
e gli venne anche la febbre.
Cominciò a balbettare
più del suo compare.
Chissà se fu la paura oppure il vino?
Nessuno mai lo seppe,
ma quando incontrava L'Ossicini, urlava:
"Pape Satàn, pape Satàn aleppe!"
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Club ScrivereCarlo Fracassi 23/01/2010 11:17 9 3761

Il primo Natale (come eravamo)

Riflessioni
Il primo Natale (come eravamo)
Il primo Natale che io ricordi
è di quella sera quando mio padre
piantò in un vaso di terracotta
un ramoscello di pino.
Mia madre legò
qualche mandarino in qua e in là
con uno spago, poi spense la luce
ed accese una candela di sego.

Mentre su quegli agrumi,
ai miei occhi ci brillava il sole,
alla base del vaso apparve
un piccolo paperino
che trotterellava sul pavimento.
Rimasi incantato da quella magia.

I miei genitori
mi diedero un bacio
e ci avviammo in camera da letto.
Nel coricarmi fra loro, mia madre disse:
"Questa notte nasce Gesù!"
Insieme a loro recitai una breve preghiera
e stringendomi al petto quel paperino
m'addormentai felice, pensando che fosse
il più bel giorno della mia vita.

Sono passati più di dodici lustri e ad ogni
Natale mi ritornano, ancor nitide, quelle immagini:
vedo una giovane coppia sorridente che tiene
per mano un bimbo con tanta gioia nel cuore
e con gli occhi ben spalancati sulle meraviglie
del mondo, tutte da scoprire e vivere ancora.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 19/12/2009 01:26 3 4639| Racconto su 'Natale dell'infanzia'

La ballata di Lorenzo Tornabuoni, nostromo (come eravamo)

Comicita'
La ballata di Lorenzo Tornabuoni, nostromo (come eravamo)
Attempato e taciturno, Lorenzo
non era certo uomo diurno.
Andava al bar solo d'inverno,
mentre d'estate alle barche
in sul porto facea governo,
perché per tanti anni
fu nostromo provetto
su regie navi militari.

Persona rozza ma di rispetto
la sua vita fu assai dura
che il destin volle per iattura
arruolato volontario
nella Repubblica Sociale
ed ora, ormai più niente
gli potea far male.

Dunque, dicevamo che al bar
si recava all'imbrunire,
un amaro Zara era il suo comandare,
che, centellinando a non finire,
durava tutta la nottata
fino al suo tardi ire.
Era un bar di giocatori,
ciarlatani e vitelloni gli avventori.
Lui, al suo tavolo in penombra,
sembrava seduto
ad un loculo di tomba.
Guardava in silenzio
giocar al biliardo goriziana
buttando l'occhio al passar
di qualche giovane sottana.

Già Vi raccontai, in una mia,
lo scherzo che facemmo
ad un bulletto di periferia.
Ci serviva quella sera una comparsa
e coinvolgemmo il Lorenzo nella farsa,
per recitare davanti ad un di Camaiore,
ch'era stato suo superiore e, che nel lazzo
era giudice istruttore a Caldonazzo:
"Nostromo Lorenzo Tornabuoni
della corvetta di Sua Maestà, bla... bla,
comandi Signor Tenente,
Eia, eia, alalà!"

Ma gli attori furon tanto convincenti
che il nostro non poté fare altrimenti
quando l'ordine provenne,
con voce impostata e solenne,
dal suo già Tenente di vascello:
"E' scoppiata la rivoluzione,
domattina alle quattro vieni
sulla palata del porto,
in divisa e armato
che c'imbarchiamo per la vittoria."
Questi rispose: "A noi!"
E di rimando: "La gloria!"

Fu così che l'eroe nostro
si recò puntuale in quel posto
ma passavano le ore
e fattosi ormai giorno
la gente cominciava
a ronzargli intorno.
Nel vederlo così bardato
fu lì lì per esser malmenato
ma lui ritenendosi assai astuto,
e persona di gran fiuto,
fece finta d'esser muto,
indi, si spogliò in grande fretta,
affagottò il tutto
ed inforcò la bicicletta,
mentre il mandante ed i compari
mimetizzati fra gli scogli
disser che la rivoluzione era rimandata,
ma il prossimo appuntamento sarebbe
stato, sempre lì, sulla palata.

Si dice, infine, che più volte
fu allertato
e che sempre puntuale,
là s'era recato
ma con l'una o l'altra scusa
il colpo di Stato fu sempre rimandato.
In conclusione,
fece come il palo della banda dell'Ortica,
era guercio e non ci vedeva quasi più,
ma un bel giorno la polizia
prese tutti senza fare gran fatica,
prese proprio tutti, fuor che lù.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 28/01/2010 12:01 5 3730

La colt di Pecos Bill (come eravamo)

Sociale
La colt di Pecos Bill (come eravamo)
Ogni giorno andando a scuola
mi fermavo, spiccicando il naso,
su quella vetrinetta del tabaccaio:
una pistola da cow boy
di lucente argento
stava lì in bella mostra.

Ci voleva un capitale per comprarla!
Ogni giorno la tenevo d'occhio
e mi sembrava sempre più risplendere.
Soldo su soldo misi da parte la somma
occorrente e intanto s'era fatta primavera.

Finalmente entrai in negozio e chiesi
di quella pistola ch'era in vetrina, visto che
al suo posto c'era una bambola di pezza.
"L'abbiamo venduta proprio stamattina"
Mi rispose la tabaccaia.

Qualcuno più fortunato era riuscito
a risparmiare più velocemente di me.
Rimasi sempre con quel desiderio mai appagato:
la colt di "Pecos Bill".
Quando oggi chiedo a mio nipote
cosa desidera in regalo, la sua risposta
è sempre la stessa: "Nonno, non lo so".
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Club ScrivereCarlo Fracassi 31/01/2010 19:17 5 4982| Racconto su 'Fili di consumismo.'

La Fiera di San Martino (come eravamo)

La Fiera di San Martino (come eravamo)
Già all'alba scalpitavo
nel letto come un puledro
nell'attesa di quel grande giorno.
Indossati i vestiti della festa
ogni anno i miei mi portavano
alla Fiera di San Martino
che si teneva a Santarcangelo
a dieci chilometri da Rimini.

Mio padre, capotreno alle ferrovie,
quel giorno ci fece salire
s'un carro bestiame tutto per noi;
puzzava di stalla ma era già pronto
per la partenza ed il viaggio
durava solo pochi minuti,
dopodiché scendemmo dal treno
insieme ad una mandria di vacche.

Ci tuffammo nella grande bolgia
del mercato dove la facevano da padroni
bovini, suini e galline di tutte le specie
e in mezzo a loro qualche sparuto trattore
con un tizio che urlava ai quattro venti:
"Questa bestia di ferro tira più di cento buoi!"
Il luna park e le bancarelle con ogni tipo
di leccornie completavano la festa.
Non mancavano i venditori di sogni:
un elisir capace di guarir ogni male,
un sapone di cera in grado di replicare
ogni carta scritta ad inchiostro,
una pietra miracolosa capace di arrotare
qualsiasi vecchia ferraglia arrugginita,
dalle grandi falci alle piccole roncole,
dalle forbici ai coltelli.

Le arzdore dei parenti che ci ospitavano
avevano iniziato a preparare in cucina
una settimana prima della festa
affinché, quel fatidico giorno, la tavola
fosse imbandita con ogni ben di dio.
Non mancavano mai
le tagliatelle al ragù e le lasagne verdi al forno,
i cappelletti ed i passatelli in brodo,
il pollo allo spiedo e il maiale in porchetta,
formaggi e contorni di ogni genere,
pane, piada e vino a fiumi
ed, infine, ciambellone ed albana!
Quel giorno m'ingozzai come un rospo
e corsi via, in tutta fretta, per rituffarmi
in quell'enorme bolgia ululante e festosa.

Giunto di fronte al cinema Odeon
fui attratto dai manifesti,
si trattava del mitico film "Ulisse",
già in proiezione sin dal mattino.
Entrai con in mano un cartoccio di lupini.
Ad ogni scena madre mi univo alle urla
scomposte degli spettatori,
accompagnate da incitazioni all'eroe.
Terminato lo spettacolo uscii dalla sala raggiante
come quel sole che squarciava le nuvole
nel rinnovar il prodigio dell'estate di San Martino.
Ero felice come non mai, pensavo ad Ulisse e alla
sua fedele sposa e già mi vedevo mano nella mano
con la mia compagna di banco,
una morettina tutto pepe
con le treccine da squaw e due occhi neri
che sembravano carboni ardenti.

Mi sembrava il più bel giorno della mia vita
ed ero convinto che altri così belli
non ce ne sarebbero più stati.
In fondo il mio mondo era tutto lì,
nelle mie fantasie di bambino e in quel grosso
cartoccio di lupini stretto fra le mani
che conservavo gelosamente, per offrirli l'indomani
alla mia amatissima compagna di banco.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 10/02/2010 13:26 14 3615

La Saraghina (come eravamo)

Donne
La Saraghina (come eravamo)
Quando noi al mare
d'aprile
fra le dune
"la Saraghina"
per vedere
d'incanto apparire,
nell'adagiarsi
sulla sabbia
ci faceva impazzire.
Lo sguardo assassino
La bocca vermiglia
Le gambe col pelo...
che meraviglia!
Il deretano,
ad esser sincero,
valeva un impero,
pareva un divano.
Le tette a vedersi
eran da sballo
e col solo pensiero
si alzava quel fallo!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 19/01/2010 19:54 10 7120

La tratta (come eravamo)

Uomini
La tratta (come eravamo)
Una distesa di sabbia s'è fatta marea
lambendo vigneti e campi di grano.

Pescatori con in faccia dipinto il sole
tirano a secco la rete scintillante.
Guizzi spumeggianti in ultima riva,
odore di salmastro e di sudore
impregnano l'aria del tardo meriggio,
gabbiani incombono su ricco bottino,
bocche affamate attendono sera.

Ardono braci nelle fredde stanze,
ristora la mensa zampillante vino,
accende speranza il nuovo mattino.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 25/01/2010 21:03 11 3577

La nonna ed io (come eravamo)

Comicita'
La nonna ed io (come eravamo)
Nata nel 1865 in quel di maggio,
nonna era tipo di fiero sguardo e di coraggio.
Lei ed io, sempre in conflitto permanente,
ad entrambi ronzavano empi pensieri per la mente.

"Con tutti quei soldi quello ti diventa un delinquente",
diceva a mia madre, malauguratamente,
se la domenica mi dava 50 lire per il cinema e i lupini,
senza saper che altre mamme davano 500 lire ai lor bambini.

Una zingarella, quando nonna aveva 10 anni,
predisse che la sorte l'avrebbe preservata dai malanni,
che avrebbe avuto figli 6
e che sarebbe morta a 86.

Tutto s'era avverato come aveva predetto la tzigana,
rimaneva sol la morte che le faceva tremare la sottana;
perciò nel 1951, pregava giorno e notte "oh, me lasso!",
ostentando gran scongiuri per il momento del trapasso.

Giunto il dì del compleanno presi del carbone
e scrissi in stampatello s'una lastra di cartone:
"MORIRAI ALL'ABA"
Poi, entrai a carponi nella stanza e con fare furtivo e controllato
legai al collo, della nonna che ronfava, il cartello malfamato.

Nonna si svegliò alle 11 e incominciò ad imprecare,
indi, come una furia corse da mamma a sbraitare:
"Guarda cosa ha scritto quell'assassino di tuo figlio! Quel perdigiorno!"
Le dissi di stare tranquilla perché ormai s'era fatto mezzogiorno.

Mamma mi lanciò un'occhiataccia e trattenendo il riso a stento,
m'assestò uno sganassone ch'io incassai senz'un lamento.
Successivamente, del fatto venne a conoscenza il rione intero;
si diceva che bene promettevo e come nonna ero di sguardo fiero.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 02/01/2010 17:39 11 4073

Quelle sere d'inverno (come eravamo)

Famiglia
Quelle sere d'inverno (come eravamo)
Ricordo sere d'inverno al crepitar
della legna che ardeva nel caminetto
invaso da faville scintillanti,
ricordo i nostri visi al focolare
rosolati come caldarroste
e i nostri vecchi che raccontavano
di demoni e di uomini senza paura.
Alla radio, ogni sera, c'era in onda un romanzo
poliziesco a puntate, con il tenente Sheridan
che solo all'udir della sua voce lugubre,
a luce fioca, faceva venir la pelle d'oca!

Ricordo le cene con gli amici di famiglia.
Ognuno portava qualcosa
di buono da mangiare,
chi il pollo arrosto,
chi le patate e chi il vino.
Già, perché quello era mangiar da signori
rispetto al caffelatte con la piada
o il pane duro avanzato dal giorno prima.
Seguiva sempre una canta d'amore
e non mancava chi, con grande pathos e
a squarciagola, brutalizzava le più belle romanze
fra le opere di Verdi e Puccini.

Infine i vecchi s'attardavano
per un "tre e trentuno"
accompagnato da urla ed imprecazioni
che avrebbero fatto sbiancare il diavolo
ma non le nostre donne di casa
abituate a sentirne di tutti i colori
da quegli uomini rozzi, alteri e virili!
Poi tutti a dormire, mentre "il prete",
nel frattempo, aveva riscaldato
le gelide ed infeltrite coltri.
Ricordo, ancora, che noi bambini,
prima d'addormentarci, stanchi e felici,
pregavamo ringraziando il Signore,
perché ogni giorno donato,
agli occhi nostri, era un giorno di festa!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 20/11/2009 18:50 18 6536

Spiacevoli notti piccini! (come eravamo)

Fantasia
Spiacevoli notti piccini! (come eravamo)
Altro che notte delle streghe!
Ogni notte era una notte di terrore.
Ogni notte tre vecchie megere,
vestite di nero come la pece,
con mani ossute ad artiglio
e nasi aquilini e bitorzoluti,
danzavano il loro sabba infernale
sotto il mio letto di spaurito bambino.

A mantenermi in continuo stato di fibrillazione
ci pensavano "amabilmente" mio fratello
maggiore e mia nonna che ogni sera raccontavano
storie di orchi assassini e di gelidi fantasmi,
mimando con le loro smorfie orribili mostri.

M'infilavo sotto le gelide coperte
lasciando solo uno spiraglio per respirare.
Mi svegliavo nel cuore della notte,
madido di sudore e col cuore in gola,
con tutte le coperte a terra ed i vestiti,
che mia madre aveva riposto piegati sulla sedia,
sparsi in qua e in là per l'intera stanza,
mentre l'armadio, con tutte le ante spalancate,
scricchiolava dolente, emettendo sinistri cigolii.
Ad intervalli regolari un ectoplasma si staccava
dal soffitto rovinando sul pavimento con un tonfo sordo:
"plaff", come gelatinoso corpo morto cade.

Divenni adulto ed andai ad abitare altrove.
Affittai l'appartamento ad una ragazza.
Dopo circa un mese dalla sua permanenza,
un giorno mi telefonò dicendomi:
"Lo sai che in casa tua c'è un fantasma?"
"Lo sospettavo"
Risposi.
E lei di rimando:
"Ma è un fantasma buono e giocherellone,
si diverte ad aprire armadi e cassetti,
mettendo tutto in disordine sul pavimento.
Alle volte sembra che stia pattinando sotto
il letto e materializza ectoplasmi dal soffitto!"

Fortunatamente la ragazza era un'occultista
e non si scompose più di tanto, ma si limitò
ad un rito che potesse far riposare in pace
quell'anima burlona, e così fu.
Ora, la notte di Halloween non rientra più fra
"Le spiacevoli notti di Zio Tibia",
è divenuta un innocente e gioioso gioco per bambini
ed è giusto che così sia!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 31/10/2009 01:32 10 4183

Uomini e topi (come eravamo)

Uomini
Uomini e topi (come eravamo)
Zi' Bertòzi passava il suo tempo
in un piccolo rustico in mattoni
che aveva costruito con le sue mani
nell'orto giardino di casa,
per non stare con le sue donne noiose
che tutto il giorno non facevan che biascicare
il rosario, proibendogli, persino, d'andare
all'osteria, luogo di perdizione e maleficio.

In quel trabiccolo c'erano tutti gli attrezzi
per l'orto, cibo per le galline e conigli
e, di conseguenza, anche numerosi topi.
Lì si rifugiava e giocava a carte da solo,
come se davanti a lui ci fosse stato un vero
avversario e domandava e si rispondeva.

Andavo a trovarlo spesso per chiedergli
di farmi vedere i topi caduti nelle
varie trappole predisposte:
erano di quelle che entri ma non esci,
se non aprendo la gabbietta dall'esterno.
Pensai di mettere a frutto la cosa non
appena si fosse presentata l'occasione.

E l'occasione arrivò ben presto.
C'era un amico di famiglia che veniva
spesso a trovarci nel pomeriggio per
un caffè ed una partita a tresette.
Era un signore molto distinto, dell'età
di mio padre, di gagliardo cuore, ma dal
tallone d'Achille: terrore atavico dei i topi!

Così corsi alla capanna di zi' Bertòzi,
presi una gabbietta con un bel topolino
e tornai in casa per mostrarglielo.
Inorridì facendo un balzo sulla sedia,
io allora infilai l'anello della gabbia
ad uno dei ferri della stufa economica
che normalmente si usavano per stender
ad asciugare qualche panno.
Col calore che saliva dalla piastra della stufa
il topolino cominciò ad agitarsi, tanto che
ripresi in mano la gabbia per andarmene,
ma questa inaspettatamente si aprì ed il
topino a correre sul tavolo fra le urla
dell'uomo esterrefatto.
Con una mossa rapida presi al volo il topo
che mi morse un dito... lasciai la presa.
Il topolino si rifugiò in uno sgabuzzino,
mentre quel Signore guadagnò la porta
e stette un bel pezzo prima di farci visita.

Mio padre, stranamente, né disse nulla,
né mi toccò; capii solo più tardi il perché.
Prima di coricarci mise una piccola tagliola
davanti allo sgabuzzino e l'indomani mattina
il topino era a pancia all'aria, stecchito.
Piansi amare lacrime, quel topino mi piaceva
proprio molto e non avrei voluto quella fine!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 16/12/2009 12:29 10 3503

Un vu cumprà di casa nostra (come eravamo)

Uomini
Un vu cumprà di casa nostra (come eravamo)
Per quel vicolo stretto,
lungo un ghetto di case,
se ne andava ogni giorno
un omino minuto,
col viso impomatato di borotalco
e gli occhi segnati con la matita
come gli artisti di cabaret.

Una paglietta sfilacciata,
una giacca smoking da matinée
con vecchie macchie di sugo,
un papillon giallo canarino
s'una camicia d'un bianco incerto
e dal colletto liso,
pantaloni neri con banda
che arrivavano alle caviglie,
scarpe consumate nell'unica via,
percorsa in lungo e in largo
per tutta la vita.

"QUANDO PASSA SILVIO PASSA L'AMORE!"
Dicevano le popolane del ghetto.

Sempre sorridente e canticchiando,
portava a tracolla una cassettina
di legno a scomparti,
come quella dei ragazzi che nei cinema
vendevano noccioline e sementine.
Lì ci teneva la sua mercanzia:
aghi, rocchetti di filo multicolore,
specchietti per il viso, pettini,
forcine ed elastici.

Ogni giorno dispensava sorrisi
e parole di conforto a quelle donne
segnate dal dolore e dalla miseria,
che gli compravano per pochi spiccioli
sempre qualcosa, mentre lui accarezzava
le guance dei loro fanciulli che crescevano
sani e rubicondi ma senza padre.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 30/11/2009 22:16 10 4096

Un bullo di periferia (come eravamo)

Comicita'
Un bullo di periferia (come eravamo)
Lo chiamavan Sceriffo,
ma ci sembrava uno sgraffigno stanco,
perché lui era un duro,
più duro di un banco!
Avrebbe voluto essere ricco
come quei nababbi del bar di città,
ma ci volevano delle referenze...

"Sei stato in galera?
Neppure una sera.
Hai almeno rubato?
Si, ma sol abigeato quand'ero in campagna,
poi anche nella borsetta di mamma,
e poi ancora in un capanno al mare
ma m'hanno riempito di botte
che ancor ho tutte l'ossa rotte..."

Fu subito assunto ed il primo incarico
che gli venne affibbiato fu quello di
giunger sul portone del commissario
che della droga faceva uso abitudinario.
Partì immantinente
ma fortunatamente
fu fermato il tapino,
ch'era certamente fuori di senno
e pure un poco cretino.

Gli affidammo una missione meno rischiosa
per divertire, del bar, il pubblico a iosa
che, nel vederlo così concitato,
a crepapelle rideva leccando un gelato.
Ma fu colto in flagrante dagli amici burloni,
mentre tentava lo spaccio fra oscuri portoni.

Era di coca che si trattava
e in gergo "pasticceria" la si chiamava:
bicarbonato mescolato a vaniglia;
un accidenti quasi lo piglia,
nel vedersi scippato da una banda rivale,
noi ridevamo più che a carnevale.

Lo processammo decidendo la sorte
e lo condannammo alla pena di morte.
Sotto un vespasiano fu posto l'infame,
mentre il boia dall'alto con corda
vetusta gli serrava la gola,
ma dalle sue labbra nessuna parola.

Era un duro che sveniva sovente
ma a denunciare i mandanti
non ci pensò manco per niente.
Così fu graziato fra gli sghignazzi
di tante sbarbine che lo chiamavano
Sceriffo Janco,
perché lui era un duro,
più duro di un banco!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 07/12/2009 18:29 10 4102

Topolino amaranto (come eravamo)

Impressioni
Topolino amaranto (come eravamo)
Potevo aver cinque anni, forse sei.

Non avevo mai visto un'automobile,
solo birocci trainati da asini o cavalli.
Un giorno passò per strada
una Topolino amaranto
più lenta e più piccola d'un carretto,
mi sembrava un giocattolo.

Non ci pensai due volte,
m'attaccai alla ruota di scorta,
mentre i miei amici correvano
urlando con le mani al cielo.
Dopo pochi metri, arrivato
di fronte a casa, lasciai la presa
battendo una bella culata a terra.

Ero infarinato di polvere e il ghiaino
aveva ridotto le mie gambe
un colabrodo sanguinolento.
Entrai in giardino, lavai con acqua
accuratamente le ferite
e ci feci sopra un impacco,
staccando larghe foglie d'uva
dai tralci della vigna.

Di lì a poco il sangue si rapprese
e le graffiature rimarginate.
Entrai in casa ma la mamma,
scrutandomi da testa a piedi,
mi chiese cosa avevo combinato.
Le raccontai l'accaduto e per poco
non svenne ma io per tranquillizzarla
le dissi che non avevo avuto paura.

Potevo avere cinque anni, forse sei.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 15/12/2009 00:33 7 3906

L'uomo del fischietto (come eravamo)

Impressioni
L'uomo del fischietto (come eravamo)
Non ero che un bambinetto
allorquando m'acquattavo,
dietro la porta della stanza,
senza destar alcun sospetto
ed anche privo di creanza,
ad ascoltar di sera,
nelle notti orbate
della luna che non c'era,
i racconti della veglia al focolare,
udendo lì il raccontare
di ectoplasmi, orchi e nani,
di fantasmi e ciarlatani,
ma il racconto prediletto
e più avvincente
era quello di una certa Dada
che nel parlar biascicava
come a franger biada;
il suo tema è presto detto:
era l'uomo del fischietto.

Nelle notti a primavera,
all'improvviso ed ogni sera
quando la giovine pulzella
s'apprestava a rincasare,
giacché giunto l'imbrunire,
ella udiva uno strano cinguettare,
come d'implume il pigolare.
Si trattava indubbiamente
di un ignoto spasimante
mai scoperto in flagrante,
ed anche se il fatto in sé
appariva inconsistente,
il brivido che la donna
avvertiva in corpo e mente
era di natura coinvolgente
ed assai preoccupante.

Fu così
che feci pipì seduta stante,
come se dal mio basso ventre
sgorgasse chiara acqua di sorgente.
Fu così
che in futuro
sentendo fischiare all'imbrunire,
la pelle mi s'accapponava
fin'a impazzire.
Solo più tardi, ormai ragazzo,
nel leggere le opere
di Hoffmann e Freud
capii a razzo e finalmente
che non ero invero deficiente
ad impallidir proprio per niente
e che da quel mondo
di certi "grandi adulti",
che da "giganti"
poi mi parver nani,
era un gran bene restarsene
il più possibile lontani!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 12/09/2011 18:46 3378

Lady L (come eravamo)

Riflessioni
Lady L (come eravamo)
Il suo scultoreo corpo,
seducente e voluttuoso,
avrebbe messo in ombra
e a vil riposo
di Fidia le modelle.
Il suo sfiorar di dita
era una carezza morbida
agli uomini del Bar assai gradita,
il suo incarnato pallido,
gli occhi suoi neri,
le sue vermiglie labbra:
un vortice profondo
in cui annientarsi
e dimenticare il mondo.

Molti spasimanti
avrebbero fatto
pazzie e carte false
per un dischiuder di labbra,
un sorriso compiacente,
ma rio il destin fu perfido,
donando loro sol
effimere illusioni
e a lei meno che niente.

Quella donna dentro di sé
portava un terribile segreto,
nessuno sapeva,
mezze verità dette,
mezze sottaciute
e lei, Lady L, singhiozzava,
improvvisamente,
vistosamente;
ansimava il turgido petto
e il rimmel scendeva
sull’esangue volto
segnato dal pianto.
Chi la guardava
soffriva, ammiccava,
condivideva e taceva.
Una gelida notte
se la portò via il vento,
morì falciata da un’auto
senza un lamento,
la uccisero la sua pena
e il suo tormento.

Questa è la storia vera
di Lady L
che non sapeva chi era
Jim Morrison
e i suoi aforismi,
perché era donna
priva di sofismi.
Ciò che caratterizzò
la sua breve vita
fu l’amaro pianto
per l’amor del figlio
destinato ad una sorte
che malattia congenita
portò a prematura morte.
Ma la donna non volle
sopravviver a quel che
fu l’unico amor lieto,
per il quale a lui solo
donò il suo sorriso dolce
ma ognor inquieto,
e come dispiegar
di cigno le ali al vento,
raggiunse l’amor suo
in un momento
...e poi sorrise a chi
meritò il suo pianto!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 11/12/2011 14:29 1 4446| Racconto su 'Non piangere per chi non merita il tuo sorriso. (Jim Morrison)'

Le Arzdore (come eravamo)

Comicita'
Le Arzdore (come eravamo)
Ai tempi della mia impura giovinezza,
fuor dal carnaio di stagione,
acquattato s’una duna,
arzdore vidi due in su la spiaggia
che, nel mese di febbraio,
nudi i piedi e a paragone
ivan danzando con candore,
piene di fierezza dei lor nudi seni
e capelli al vento che agli occhi miei
parea gran portento, mettendomi
a dura prova: meglio sfogar i sensi
puntando alle mammelle
delle nerborute contadinelle,
se null’altro qui si trova!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 20/01/2012 22:32 1 3210

Frou frou (come eravamo)

Impressioni
Frou frou (come eravamo)L’altra notte con gli amici
si passeggiava sul lungomare,
rimembrando giorni lontani, giorni felici.
Non si vedeva a un palmo dal naso,
ma non eravamo giunti lì per caso
a conversare; eravamo lì tornati,
volutamente, per ricordare qualche
prodezza della nostra perduta giovinezza,
mentre la nebbia ci avvolgeva col suo
abbraccio come impalpabile carezza
ed il pensiero per lunghi attimi distolse.
Ed ecco in quel frangente il suo apparir
ci colse giungendo incontro sorridente
con l’aprirsi della morbida pelliccia
e sotto siffatta raffinata veste niente!
Per noi tutti era la nostra Lili Marleen,
qualcuno invece la chiamava Frou- Frou,
Frou- Frou del tabarin, ma come del sol
cocente raggio che porta al pellegrino
del deserto null’altro che miraggio,
così la nebbia nel diradarsi immantinente
alla vision interpose l’intercalar sovente
di quel faro il raggio sul molo di ponente
e sfocato ma dolce ricordo nella mente.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 14/01/2012 08:05 3778| Racconto su 'Avvolti dalla nebbia'

Amarcord (come eravamo)

Riflessioni
Amarcord (come eravamo)
Ai tempi della mia prima infanzia
d’inverno erano opachi i vetri
d’ogni casa ma non la speranza e
se il perché mi chiederete giusta
risposta in breve, avrete.

Né doppie finestre, né termosifone
scaldava quelle fredde mura,
c’era solo una mamma che sin dal
mattino con grande amore e cura
accendeva il fuoco, affinché il suo
calor permettesse il cucinare e per
tutto il dì fino a sera riscaldare.

Io sui vetri di vapor opachi disegnavo
uccellini, casette e paesaggi, quelli
erano i miei primi giochi, i primi assaggi,
e mentre nella pentola in bollore sulla
stufa borbottava un brodo di legumi,
fugace il giorno scivolava a sera
al tepor del foco e primi lumi.

Alla veglia, chi novellando, chi a carte
giocando, lente e serene scorrevano
le ore; pure sorella radio ci teneva
compagnia col Festival della canzone,
ed accorata e candida volava in quel
di Trieste la colomba della liberazione.

Quelli erano giorni che insieme al fuoco
si riaccendeva la speranza in un mondo
migliore, passate della guerra le sventure,
perché forti di una nuova, sana e robusta
Costituzione, anche se la vita ancor era
assai spartana e quel poco che c’era
si divideva equamente alla romana.

Alle domeniche e ai dì di festa comandati
s’indossava il vestito rivoltato dello zio,
quello col taschino a destra della giacca,
e per curar la tosse si beveva acqua, calda e
zuccherata, attinta dalla caldaia della stufa,
senza fare tante storie e tante mosse a ufa.

Or i vetri delle case non sono più opachi
come allora, perché c’è il termo e doppie
imposte, i bambini non sono falcidiati
dalla tosse, ma su di essi, in futuro,
graveranno nuove tasse da pagare,
in luogo di chi d’orecchi è duro
e non ci vuol proprio sentire.

Dentro casa fa un gran caldo
ma freddo in fondo al cuore,
il bicchiere è rimasto mezzo
vuoto, benché in ogni dove
ci sia più d’un televisore, perché
fra disoccupazione e alienazione
la fiducia nel Bel Paese se n’è ita
in altro loco, se n’è ita altrove;
sembra persa la partita e oltre
i bei cristalli trasparenti, al giorno
d’oggi, scorgi, ahimè, grigiore,
viver opaco e cupi sentimenti!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 02/06/2012 08:05 4410| Racconto su 'Oltre opachi vetri'

Dal diario di nonna! (come eravamo)

Famiglia
Dal diario di nonna! (come eravamo)
Oggi 16 aprile 1906
con marito e figli,
mano nella mano,
siamo andati tutti
al Circo Americano.
Da bambina,
e non sembri strano,
avevo già visto
cavallerizzi, domatori,
acrobati e saltimbanchi
a quel di Ciniselli Gaetano,
ma mai col fucile
colpir una moneta
al volo e farla
cadere in un barile!
Era Buffalo Bill,
gran cacciatore
e persin attore che,
impersonando
il Generale Custer
e la battaglia
del Little Bighorn
in un turbinio
di cavalli, indiani
e soldati americani,
per i lunghi applausi
ci fece spellar
pure le mani.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 11/02/2012 11:57 2 3378

Un altro tempo ...un altro luogo (come eravamo)

Impressioni
Un altro tempo ...un altro luogo (come eravamo)C’è una leggera brezza questa notte
nella quiete estiva del borgo
che par m’accarezzi il viso,
schiudendo l’uscio a lontani ricordi,
ed ogni fioca luce sembra rinvigorir a tratti,
nella penombra di vecchi anfratti,
ridando vita e libero sfogo
a personaggi di un altro tempo,
di un altro luogo.

Mi rivedo ancor tenero fanciullo
fantasticar del nulla
in quelle mattinate pigre, solatie
e cielo terso.
Il rauco richiamo dello straccivendolo
come mantra ripetere a iosa il verso:
“Strazò, strazòòò, straz doni òòò”.
Nere come cavallette,
l’apparir in strada
di sgangherate biciclette
e l’arrancare stanco
del carbonaio
che sul manubrio
reca l’ingombrante sacco;
fischiettando l’arrotino,
i coltelli affila
con la sua mola,
la pescivendola grida
a magnificar il suo pescato,
sbuffando come locomotiva
e per freno la deriva
di scalcagnate ciabatte a sola.
Colgo bisbiglìi, strilli, lazzi e,
sento ancor, di quella gente, il salmastro odore
che si confonde con quello di baccalà
di certe prosperose Arzdore!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 19/06/2012 19:48 1 3789

Ragazzi di strada (come eravamo)

Riflessioni
Ragazzi di strada (come eravamo)
Scusate qui l'impertinenza
ma da bambino
gli amici del quartier povero
mi chiamavano
fracassaculintelligenza
perché tanta
era la mia intransigenza
sui quei votati all'ignoranza
che mettevo in evidenza
con molta baldanza
e pure tanta arroganza,
il loro esiger, con tracotanza,
di bestemmiare in abbondanza,
senza nessun motivo in apparenza.
Ma di quegli amici, all'occorrenza,
ben presto ne feci senza,
mettendo, tuttavia,
da parte, con pazienza,
anche la mia smodata supponenza,
nel prender atto, di conseguenza,
che ignoranza e supponenza
si potevano dar la mano in fratellanza.
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Club ScrivereCarlo Fracassi 17/04/2011 11:30 2 3904

Donne di casa nostra (come eravamo)

Donne
Quando ancor i grilli all'imbrunire
e le lucciole di sera
erano fra i miei pensieri,
m'acquattavo
sotto quel grande tavolo in cucina.
Lì stavo bene col mio cagnino.
Sembrava che le scarpe argillose di mio padre
guardassero quelle lustre di mia madre,
riflettendo il loro concitato dialogare:
lui con la barba non fatta,
lei sapientemente truccata.
Poi, una sera
con fermezza mi ordinarono
di sedermi a tavola con loro.
Mi sentivo sradicata dal mio riparo
ed anche il cagnetto nella sua cuccia
dava segni d'insofferenza.
Negli anni a venire
le cose non cambiarono molto.
Ogni volta che mi ritagliavo uno spazio,
marito, figli e parenti mi richiamavano
alla loro realtà, l'una fatta di possesso,
l'altra di richieste sempre più pressanti.
Or che son vecchia e sola
e il terremoto ha distrutto la mia casa,
il Comune m'ha messo sotto una tenda
e regalato un cagnetto affettuoso.
Mi sembra d'esser tornata bambina...
questa volta resterò qui sotto
e nessuno mi verrà a cercare!
Donne di casa nostra (come eravamo)Racconto in esclusiva
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Club ScrivereCarlo Fracassi 30/04/2011 12:33 2 5796| Racconto su 'Su ogni mio infranto rifugio'

L'aurora più bella del mondo! (come eravamo)

Natura
L'aurora più bella del mondo! (come eravamo)
Di albe
ne han viste quest’occhi
ma ricordo ancora quando
poco più che marmocchi
ci recavamo d’estate
nottetempo
in riva al mare,
nell’attesa dell’alba
a contemplare.

Placida l’onda
a lambir la riva,
e, senza una nuvola
che stendesse un velo,
farsi più chiaro il cielo;
ed ecco incipriarsi l’orizzonte
che ben presto c’illuminò del sol
in cuor e sulla fronte.

A noi parve l’aurora
più bella del mondo
e mentre il sussurro del mar
gorgogliava, fra gli scogli,
più profondo,
scorgemmo un marinar
ritto sulla sua barca a prora,
anch’egli intento
ad ammirar l’aurora!

Giorni felici erano quelli,
lontani dagli affanni
e dagli orpelli,
e sì che ne ho viste
di albe ancora,
ma mai più
quegli occhi neri
e quel candido sorriso
col sorger dell’aurora!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 05/05/2012 16:57 3662| Racconto su 'Un'aurora'

Come in un presepe (come eravamo)

Riflessioni
Come in un presepe (come eravamo)
Ecco il sole scomparire
come per gioco
dietro alla montagna.
Fa freddo all’imbrunire
la nonna attizza il fuoco
e si lagna, si lagna.

La vecchia radio gracida
come una rana stridula
che salta nello stagno.
Or cade pioggia acida,
pare fumo di una nebula
ed io mi bagno, mi bagno.

Rincasa il babbo dall’orto,
mamma s’appresta a cucinare,
torna Mariella dalla scuola.
Lui è sporco come un orco,
mamma comincia a mugugnare,
la sorella è una sola.

Dopo un lento desinare
c’è chi subito va a dormire,
domani non è ancor dì di festa
e presto ci si deve alzare.
Il cane vuole uscire,
la nonna ben serra una finestra.

Tutto tace nel silenzio notturno,
la pendola scandisce pigramente le ore,
il bagliore del lampo illumina le stanze,
dall’ovile giunge un belato,
corre la famigliola a turno
ad accarezzare il nuovo nato!
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Club ScrivereCarlo Fracassi 18/08/2015 12:21 1 2367



Carlo Fracassi
Carlo Fracassi Sono orso e socievole, allegro ed ombroso, romantico e cinico.
Nella vita non si ama una volta sola ed ho una speciale vocazione per l’amore platonico. Cerco ancora la donna del sogno ma l’aspetto senza uscire di casa.
Inizialmente, scrivevo solo per amore, oggi lo faccio per ammazzare il tempo, sperando di prendere la mira giusta!
Amanti della natura e degli animali, io e la mia compagna desideriamo dedicare un pensiero per il nostro cane, rimasto per sempre nei nostri cuori, unitamente alle persone più care.
Addio Chicco,
dolce compagno della nostra vita.
I tuoi salti festosi
hanno reso lieti e sereni
i nostri giorni vicino a te,
piccola mite creatura.
Il tuo languido sguardo,
il tuo tenero musino
in cerca di carezze mai lesinate…
è così che ci sei rimasto nel cuore
coi tuoi balzi di gioia,
ora sospesi, per sempre, fra terra e cielo.
Continueremo ad amarti
come tu ci hai amato.

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