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Storia di storie romagnole

Impressioni
1
Donne, bambini, adulti e gran signori,
bambine, giovanotti e vecchierelli,
esperte ballerine e muratori,
regine, gondolieri e giovincelli,
leggete questi versi dedicati
ai personaggi qui sotto citati:
il Passatore, Artusi e la sorella,
la cui storia, di certo, non fu bella.
2
Intreccio di destini in un vissuto
di due persone di lignaggio vario,
l’uno brigante, l’altro risaputo,
autore di un famoso ricettario.
Entrambi vissero la loro vita
così come l’avevano costruita.
Non fu la stessa cosa per Gertrude,
che visse e poi morì in maniera rude.
3
Se volete seguirmi con pazienza,
nelle storie sarete trasportati,
e in seguito verrete a conoscenza
dei fatti sconvolgenti qui narrati.
Grandi avventure, volontà esaudite,
persone fragili, oltreché colpite,
dalle fortune avverse o compiacenti,
in un fiorire degli accadimenti.
4
A Boncellino di Bagnacavallo
in piena e vera terra romagnola,
della Chiesa regnante con l’avvallo,
il Passatore nacque, della scuola
di chi vivrà la vita con l’inganno,
coi furti, le uccisioni e il grave danno
che apporterà alle genti rapinate
e, in mille modi e casi, maltrattate.
5
La colpa, invero, fu anche dello Stato,
conosciuto e chiamato Pontificio,
che quella terra aveva massacrato,
con un crudele e antico sacrificio,
fatto di tasse e grandi vessazioni,
triste realtà per le popolazioni:
vera condanna ad una vivere scuro,
di sotterfugi, malsano e insicuro.
6
Si chiamò Passatore perché il padre
traghettava persone sul Lamone
e portava il cognome della madre
Malandri si chiamava, all’occasione.
Di dieci figli l’ultimo arrivato
a una scuola privata fu mandato
per prepararsi bene a esercitare
il mestiere di prete sull’altare.
7
Se ne fuggì altamente schifato
da quella scuola di quasi prelati,
per ben altro mestiere era portato,
e per altri guadagni procurati,
rischiando la sua vita ogni momento
per un monte di gloria od un frammento,
per sfidare i potenti a tutto spiano,
dominarli col gesto della mano.
8
Stette col padre. pronto a lavorare,
lungo il Lamone a guardare la vita
e le persone di cattivo affare,
in una storia lunga ed infinita,
di imbrogli e ruberie, per imparare
come l’essere umano sopraffare,
per farsi vincitore di una sorte,
poco benigna e dalle braccia corte.
9
Di notte soprattutto lui ebbe modo
di fare conoscenze non fidate,
ché fisso in lui stagnava questo chiod
di vivere la vita con bravate,
come rivalsa contro l’oppressione
di chi al potere aveva l’occasione
di gestire il volere a caro prezzo
sfruttando le persone con disprezzo.
10
Stefano Pelloni, così era il nome,
ma per tutti era solo Stuvanè,
lui ci teneva, ci teneva eccome
che si citasse il padre, questo è,
per cui sarà Stùvan de Pasador,
la firma del brigante del terror,
che sentiranno quei malcapitati
da lui presi di mira e maltrattati.
11
Fece altri lavoretti di maniera,
umili certo e per poco denaro,
ma l’obiettivo un’altra cosa era
gli piaceva l’impresa da corsaro,
finché fu condannato per la morte
di una ragazza incinta, mala sorte,
colpita da un accidentale sasso
da lui lanciato a guisa di smargiasso.
12
Per una lite a Pieve di Cessato,
che coinvolgeva vari ragazzotti,
sbagliò il colpo, fatale, e condannato
fu a vivere nel carcere le notti,
ma non rimase il Nostro a vegetare
e progettò ben presto di scappare,
lo fece usando la sua fantasia,
un buona sera a tutti e fuggì via.
13
Imprigionato per le ruberie
riuscì a scappare via tutte le vòlte,
segui coscientemente quelle vie,
in cui credeva, e la sua buona sorte
lo mise a capo di una prima banda,
che audace agì, laddove la sua landa
fu per Pelloni l’utile proscenio,
da Brisighella a Casola Valsenio.
14
Dal carcere, a gestione familiare,
di Russi, Stuvanè potè sparire
perché riuscì a far innamorare
la moglie del guardiano... e poi fuggire.
Una porta restò, per caso, aperta,
ne approfittò il brigante, sempre all’ erta,
vigile sempre, pronto per scappare,
lo fece e poi, ricominciò a rubare.
15
Così che preparato al suo mestiere
si organizzò e divenne il titolare
di due bande famose nel dovere
gestire, con scaltrezza, il malaffare:
Giuseppe Afflitti e Giuseppe Babini,
i capi delle bande di assassini,
che si unirono in un nome comune,
di Stuvanè e delle sue fortune.
16
Per rendere più saldo il suo potere,
il Passatore a spese non badò,
sfruttando delle genti il dispiacere,
d’informatori una rete creò,
ché lo aiutasse nelle scorribande
della Romagna fra città e lande,
anche un prelato e pure un poliziotto
furono membri del patto corrotto.
17
Le due bande divennero una, audace,
da quindici e più uomini composta,
di atti violenti fu molto capace,
atta allo scopo di dare risposta
a quello Stato Pontificio che
con un chiaro motivo ed un perchè,
dar si rifece l’armi consegnate
ai romagnoli, all’epoca donate.
18
Per difendere i grandi patrimoni,
che possedeva da sempre in Romagna,
non fidandosi più di quei demòni
di quella terra che il Lamone bagna,
dall’Austria preferì farsi lo scudo,
con un accordo pragmatico e crudo,
che prevedeva il loro contributo,
dai romagnoli per niente piaciuto.
19
E il Passatore insieme ai suoi ribaldi,
braccianti contadini ed artigiani,
per l’avventura e la rapina caldi,
nei paesi e in città mise le mani
e scorribande fece a tutto spiano,
a Bologna, Ravenna e tutto il piano,
a Ferrara e Forli si trovò spesso,
operando per anni con successo.
20
Tenendo in scacco la Gendarmerie
Austriaca e Pontificia, con l’aiuto
di connivenze atte alle ruberie
che il buon Stuvàn usò con sottil fiuto,
da lui usato e mai abbandonato,
per evitare d’esser catturato
ricompensava chi lo sosteneva,
coi beni tolti a chi lui derubava.
21
Nacque così di Robin Hood la storia
che il Passator togliesse a chi poteva,
per poi distribuirlo, con gran boria,
a chi proprio un bel nulla possedeva.
Verità era invece un’altra cosa:
la ricompensa congrua e generosa
che il brigante elargiva a ringraziare
quelli che lo aiutavano a rubare.
22
Il mito del brigante buono nacque
dal popolino che in lui vedeva
di loro il solo a cui no, non dispiacque
combattere con chi li derubava,
cosa che Stuvanè fece davvero,
con gran coraggio e spirito guerriero
ma per altre ragioni ben diverse
da quelle dai sostenitori emerse.
23
Anche Pascoli lo chiamò cortese
nella poesia Romagna e Fusinato
nei suoi versi lo definì palese
contestatore del potere dato.
Rubava, ai ricchi, soldi, con pudore,
che poi elargiva a tanti, con amore.
Non furon certo queste le ragioni
del malaffare suo e dei suoi ladroni
24
Garibaldi lo disse coraggioso
nello sfidare i centri del potere
e il poeta Guerrini fu orgoglioso
nel chiamarlo colui che vergognare
fece gli usurpatori non voluti
da quelli che inneggiavan, risoluti,
ad uno stato giusto e liberale
che optasse per il bene non il male.
25
Per cancellare ogni ombra di menzogna,
si dica veramente quel che fu.
Il Passatore fu uomo di vergogna,
di una Romagna che ora non c’è più.
Si comportò da vero criminale,
e in ogni dove sparse sangue e male,
addirittura sezionò persone,
in linea con la propria aberrazione.
26
La giusta ribellione contro il clero,
che aveva impoverito quella terra,
degenerò in un contrasto vero
contro la gente, con insana guerra,
contro il buonsenso, il vivere normale,
con un comportamento da animale,
efferatezza estrema, immotivata
per una meta òrrida e sbagliata.
27
Invase e saccheggiò le cittadine
Bagnara, Castelguelfo e Cotignola,
Longiano e pur Consandolo ed infine
Brisighella, bellezza romagnola.
Le ricche abitazioni dei più abbienti
saccheggiate con beceri espedienti,
torturati con astio i titolari,
seviziati con odio senza pari.
28
Alto un metro e settanta, il Passatore,
capelli neri aveva, occhi castani,
fronte spaziosa, come gran signore,
col crimine, da sempre, nel domani,
pallido il viso, torvo e sguardo truce,
della legalità mai vide luce,
piuttosto che pietire un’altra sorte,
non volle vivere e cercò la morte.
29
Ma un altra impresa alfin volle tentare
prima di cambiar vita suo malgrado:
di Garibaldi i soldi derubare
e ancora vivere allo stato brado.
Sparsa era voce che l’eroe avesse
un tesoro nascosto che potesse
essere prelevato nel percorso
della sua fuga, dall’austriaco morso.
30
Subito accorse all’ultimo rifugio,
in cui l’eroe avea mostrato faccia,
con gli scagnozzi pronti, senza indugio,
ma ormai di lui non c’era proprio traccia,
nè tesoro, né eroe, solo un abbaglio.
Resosi conto dell’enorme sbaglio,
chi ultimo lo vide derubò,
e con quei pochi soldi se ne andò.
31
Avevano gli Austriaci ripreso
della Romagna il predominio intero
ed il Papato sentendosi offeso
dalle sconcezze del Brigante, invero,
ne ordinò la scomparsa immantinente,
per sconfessare tutto il suo presente,
e il primo passo fu la distruzione,
della rete di amici, la fazione.
32
Per una spiata venne imprigionato
Fagòt, uomo di punta di Pelloni
che, per salvar la pelle, consigliato
vuotò il sacco dicendo date e nomi,
nomi di spie rifugi e informatori,
le case amiche ed i fiancheggiatori,
tante persone furono ammazzate,
e ad una triste sorte condannate.
33
Dopo Fagòt fu preso anche Lamella
che belò come pecora smarrita
e la motivazione sempre quella:
salvare, e mica è poco, la sua vita,
Rivelò il nascondiglio di Farina,
Dumandò nominato, una pedina
importantissima del Passatore
che della fine già sentiva odore.
34
Senza la rete delle protezione,
il Pelloni si vide circondato,
poteva scegliere la soluzione
di salvare la vita, pur braccato,
raggiungendo quei boschi in Appennino
della Toscana, proprio lì vicino,
ma rimase in Romagna per sfidare
chi lo voleva prendere e ammazzare.
35
Assieme ai fidatissimi briganti,
organizzò un’ultima sua festa,
con donnine, cibarie e musicanti,
aspettando da ubriachi la tempesta.
Gozzovigliarono per giorni tre
cercando una salvezza che non c’e:
in una vita di crimini fatti
non c’è perdono per tanti misfatti.
36
Il venti marzo, anno cinquantuno,
nella tenuta Mesa si recarono,
in un capanno in due, fuori nessuno,
e di non esser visti poi sperarono,
qualcuno li scoprì e denunciati
furono ai militi, atti e preparati
a raggiungere il luogo della Mesa,
e ben pronti a far loro una sorpresa.
37
Il Pelloni e Giazol, dentro serrati,
si attrezzarono tosto alla bisogna,
a difendersi a morte organizzati
e fugare del tutto la vergogna
d’essere presi e poi sbattuti ai ferri,
per la felicità dei tanti sgherri,
arrivarono intanto i militari,
con il fuoco negli occhi e nelle nari.
38
Il Comandante capo dei gendarmi
s’avvicinò alla porta del capanno
ma fu freddato subito dalle armi
di Pelloni e Giazol, in grande affanno,
che uscirono sparando a tutto e a tutti,
ma la cosa non diede buoni frutti.
Giazol riuscì a fuggire, anche azzoppato,
ma il Passatore, invece, fu ammazzato.
39
Il corpo suo poi venne caricato
su un carretto tirato da un ronzino,
e al mondo romagnolo fu mostrato,
come monito ad un triste cammino,
da non seguire, ché il Papa è il potere
e a tutti impone, a tutti, il suo volere,
con molti mezzi a sua disposizione,
con la violenza e con la costrizione.
40
E qui finì la storia di Pelloni,
per molti un mito perché osò sfidare
il potere del Papa in condizioni
di estrema povertà ed insegnare
alla vessata gente romagnola
una diversa strada, un altra scuola,
la forza per potersi ribellare
nei modi giusti e non col malaffare.
41
Ma Stuvanè nei modi esagerò,
non fu né Robin Hood e né cortese,
solo un brigante che la forza usò,
ma a lungo andare ne pagò le spese.
Troppi delitti e troppo male fatto,
col diavolo firmò un bieco patto,
far quello che voleva in libertà,
in cambio della sua felicità.
42
Fu sepolto a Bologna, alla Certosa,
Campo dei Traditori, era chiamato,
non fu una sepoltura dignotosa,
dal Monsignore fu anche diffamato,
con la condanna eterna in quanto empio,
e giudicato come brutto esempio
da non seguire, ché l’esecrazione
sarebbe stata senza conclusione.
43
A questo punto è necessario fare
un passo ìndietro nella storia detta
e ad un preciso giorno ritornare
e rivedere quanto il fato metta
di suo, quando per caso o per sfortuna,
di due vicende se ne fa sol una,
due personaggi mettere vicino:
il Passatore e Artusi Pellegrino.
44
Artusi nacque da famiglia agiata
in quel di Forlimpopoli città
dalla vita pacifica e assonnata
e visse una serena realtà
fatta di studi, prima a Bertinoro,
che seguì con impegno e con decoro,
e poi a Bologna dove se ne andò
per laurearsi, ma non terminò.
45
Se ne tornò a casa per gestire,
con il padre, l’avviata drogheria,
e il suo obiettivo era conseguire,
proseguendo gli studi via via,
la fama di valente letterato,
la verità che aveva sempre amato,
ma il fato suo cambiò la direzione
e incominciò un’altra professione.
46
“L’ Arte di Mangiar Bene” comportò
una fama di livello mondiale,
gastronomo provetto spopolò
in maniera, a dir poco, eccezionale.
Fu così che la sua Scienza In Cucina
diventò una lettura sopraffina,
delle italiane manuale prezioso
per un buon cibo poco dispendioso.
47
Si trattò di ricette regionali
presentate con stile e fantasia,
rielaborate in modi sostanziali
da coniugare gusto e leggiadria.
In tutta Italia il libro fu venduto
e piacque immemsamente, è risaputo,
contribuì in maniera speciale
all’italiano, lingua nazionale.
48
Curioso è che, questo ricettario,
fu dedicato ai suoi due bei micioni,
parrebbe forse strano e visionario
ma Artusi forse ne avea le ragioni.
Entrambi, Biancasen e Sibillone,
compagni affezionati del padrone,
gli diedero, chissà, gli impulsi adatti
per gli osannati suoi gustosi piatti.
49
Quattrocento settantacinque erano prima
poi diventarono sette e novanta
le ricette che giunsero alla cima
del ricettario ch’ebbe fama tanta,
dagli antipasti, chiamati Princìpi,
ai liquori, ed in mezzo gli altri tipi,
di piatti preparati con sapienza
con gusto fino e adatta conoscenza.
50
Con i fidati Francesco e Marietta
sperimentò, con impegno costante,
la buona fattura di ogni ricetta
con cibo sopraffino ed abbondante,
e solo dopo aver molto provato
nel manuale veniva riportato
con un commento di presentazione
non scevro da un’arguta riflessione.
51
Per quest’opera il grande Pellegrino
ebbe gli applausi di un noto poeta
Guerrini Olindo, spesso a lui vicino,
della cucina ambizioso esteta.
Si scambiarono lettere e impressioni
dibattendo le loro convinzioni
creando cosi un’amicizia salda
che al tempo si frappone e il cuore scalda.
52
Fu uomo generoso e lo mostrò
ricordando la sua città natale,
possedimenti e lasciti donò
per far beneficenza in generale,
dando disposizioni ben precise,
che fossero da tanti condivise,
le sue sostanze dell’eredità,
per una sana e giusta società.
53
E Forlimpopoli oltre a ricordare
il suo famoso e caro cittadino
istituì una festa a celebrare
la fama di colui che fu vicino
a quel piccolo paese romagnolo
che un giorno abbandonò non per suo dolo
ma per un torto subito con dolore
dal malvagio bandito: il Passatore
54
La vita gli cambiò dopo il ricatto,
di Stuvanè nel teatro del paese,
ai signoroni nella sala fatto
e Pellegrino alla fine comprese
che era meglio quel luogo abbandonare
e Forlimpopoli dimenticare.
I fatti succeduti quella sera
furono causa di una storia nera.
55
A Forlimpopoli, dopo l’ Ottocento,
si traferì il teatro comunale
in nuova sede, a miglioramento
dell’obsoleto progetto iniziale
attivo già dal secoo trascorso
con giusto e notevole percorso
davanti all’attentissimo consesso
con rappresentazioni di successo.
56
Nella Rocca Albornoz fu programmata,
sede preziosa del nuovo comune,
l’adeguamento di sala adattata
per un prosieguo di nuove fortune
Per decorare la sala Bibiena,
diede il suo apporto per l’opera amena
e Liverani scenografo provetto
fu invitato per il nuovo progetto:
57
Il teatro con l’ingresso principale,
con colonnato al piano superiore,
con apertura semplice, essenziale
apparve a tutti pratico e migliore
Dotato di servizi più importanti
e veramente piacque a tutti quanti
si diede spazio a rappresentazioni
che regalarono arte ed emozioni
58
Fu l’ingegnere Fabbri poi a guidare
tanti lavori del Teatro Goldoni
le direttive per modernizzare
con le più che dovute adeguazioni
con materiale solido, efficace
ma con la leggerezza che non spiace.
Il pittore Bacchetti diede smalto
alle decorazioni in basso a in alto
59
di Forlimpopoli arsa come brace
dall’Albornoz dipinse l’acre scena
nel sipario in maniera sì efficace
che fu portato poi, con scelta piena,
ad ornare il Consiglio Comunale
del Municipio simbolo essenziale,
a ricordo di tempi ormai passati
ma giustamente mai dimenticati.
60
Nell’ anno millenovecento e uno
il teatro Goldoni cambiò nome
Teatro Verdi si chiamò e nessuno
potè dimenticare quando e come
il grande musicista spazio diede
alla la sua volontà, alla sua fede
di rappresentazione in quel momento
di gran figura del Risorgimento.
61
E venne l’era delle proiezioni
ed il Teatro qualcosa cambiò,
non più attori, ma rappresentazioni
ed attori ed attrici battezzò.
Il primo cineforum prese quota
dopo i film luce della guerra nota
che diedero speranze a chi voleva vedere i propri cari e non sapeva.
62
Sono trascorsi così i mesi e gli anni
e il teatro è ancora operativo
con buoni risultati e un po’ di affanni
il Verdi è più che mai pulsante e attivo
Oltre la sala interna c’è l’Arena
che nelle notti estive porta amena
aria fresca che offre un po’ di pace
al nostro corpo diventato brace.
63
E tutto quanto questo lo si deve
a chi lo ha amministrato per tanti anni
che ha superato ogni momento greve
con sforzi sacrifici e molti affanni:
Nino Bazzoli con la figlia Diva
e con la cara moglie lo gestiva,
Giulio Vitali detto Pitutì,
e il figlio Guido, che è ancora lì.
64
Ma il nome del Teatro prese fama
dagli eventi improvvisi ed eclatanti
ivi successi, con sottile trama
di crudi fatti e storie, ahimè, importanti.
I signorotti ignari del paese
a causa di provate e losche intese
furono derubati a tutto spiano da dai delinquenti col fucile in mano
65
Il Passatore fece a Forlimpopoli
il colpo più famosa ed intrigante,
piccolo paese non megalopoli,
ma il modo fu preciso ed importante.
Intanto il gran coraggio dell’impresa,
da tutti francamente disattesa,
e l’organizzazione col ricatto,
che quella banda tosto mise in atto.
66
Con l’aiuto di gente di quel posto
i Lisagna, Gardela e poi Rondoni,
del Passatore del servizi al costo,
seppero di case, ori e patrimoni,
e scrissero una lista di signori,
a cui rubare tanti bei tesori,
ed il metodo usato fu sempre quello:
servirsi dello schioppo e del coltello.
67
Con stratagemma da professionisti,
entrarono da Porta Forlivese,
con fare circospetto e poco visti,
si diressero al centro del paese,
dentro la rocca e poi dentro al teatro,
dove un drammone era rappresentato,
un episodio biblico importante:
La Morte di Sisara dolorante.
68
Come attori, i briganti minacciosi,
sbucarono dal palco bene armati,
senza perdere altro tempo, impetuosi,
dissero d’essere stati informati
della presenza, in sala, dei signori
con ricchezze patrimoni e valori.
Scortati a casa con armi e ceffoni
si fecero aprire porte e portoni.
69
Tredici benestanti del paese
furono derubati d’ogni cosa,
annullate del tutto le difese
l’estorsione fu più che clamorosa.
Orologi, ori, biancheria e soldi,
depredati dai bravi manigoldi,
in un consesso di brutalità,
paura e orrore in tutta la città.
70
Fra i depredati, derubato fu
anche l’Artusi e la famiglia tutta,
per i furfanti solo un deja vu,
per i frodati fu una storia brutta.
Minacce con percosse e imposizioni,
le stile dei bastardi brigantoni.
L’ Artusi poi narrò, con precisione,
quella nottata di orrore e dannazione.
71
Si servirono di Ricci Ruggero,
vicino e buon amico dell’Artusi,
a farsi aprire, con minacce, invero,
da quelli che lì dentro erano chiusi.
Ruggero urlò da basso, come un matto,
che c’era un tizio giù con un contratto,
molto importante, proprio un bell’affare,
rimaneva soltanto da firmare.
72
Di Pellegrino il buon padre abboccò,
scese ed aprì le porte ai malviventi,
che strazio fecero di tutto ciò
ch’erano gioelli soldi oro e argenti,
con gran paura dei malcapitati,
di tutto quel che c’era derubati.
Le due sorelle, con paura in petto,
cercarano rifugio sopra al tetto.
73
In seguito l’Artusi riveló
che, in quella disgraziata circostanza,
riconobbe la faccia di chi osò
partecipare alla truce mattanza:
figura sinistra, faccia crudele,
in grado di eruttare solo fiele:
l’infame Valgimgli, ch’era un prete,
colluso della banda nella rete.
74
Personalmente lui partecipava
alle rapine della banda infame,
il potere di capo gli spettava,
per dare sfogo alle tristi sue brame,
quando Pelloni a volte era impegnato
e ad altri affari loschi interessato.
Artusi, questo, al dito si legò,
e in seguito poi tutto spifferò.
75
Oltre a quell’altre, c’era la sorella
dell’Artusi, Gertrude si chiamava,
si difese da fragile donzella,
ma violenza subì e lei voleva
un grande amore e un futuro diverso,
ma subito sentì di avere perso
una parte di sè molto importante,
un sogno non più azzurro e affascinante.
76
Solo più tardi Gertrude riuscì
a liberarsi di quel vile scempio
scappando per i tetti, o giù di lì,
vittima inerme dell’episodio empio,
fu ricondotta a casa dai vicini,
ben consapevoli degli abomini,
per cui quella ragazza devastata
fu nella mente tanto martoriata.
77
Non riuscì più ad essere la stessa,
nell’anima covò altri pensieri,
ai familiari apparve disconnessa
sia negli affetti che nei desideri,
negli occhi restò sempre quell’orrore
frutto della paura e del terrore
di quella notte lunga e disperata,
presa con furia, rabbia ed umiliata.
78
Dopo queste incresciose avversità,
l’ Artusi ripensò a tutto quanto, abbandonò per sempre la città,
con decisione e senza alcun rimpianto.
Lasciò, quindi, il paese per andare
nella bella Firenze e non pensare
alla terra insicura abbandonata,
ma per certo mai più dimenticata.
79
Gertrude seguì Artusi nella nuova
città preziosa, chiamata del Giglio,
era per lei un’ulteriore prova
per vedere di sciogliere il groviglio
di strane sensazioni nella testa,
che la rendevano confusa e mesta
nel ricordo della tragica notte,
da lei vissuta con offese e botte.
80
Ma il bieco male triste continuava
a rovinarle l’animo gentile,
che in cuor suo totalmente sperava
di ritornare felice all’ovile,
in cui era cresciuta più tranquilla
e risentire almeno una scintilla
di quell’antica voglia per la vita,
scomparsa all’improvviso e mai rinata.
81
In quel frangente Artusi progettò
di mandare Gertrude a respirare
l’aria fresca e natìa e, perché no,
con buona dote, farla maritare.
E così fu, in quel di Bertinoro,
con l’Albana da bersi solo in oro,
la ragazza fu data a un tipo strano,
dal carattere brusco ed inurbano.
82
Mal gliene incolse, povera Gertrude,
in un ambiente così bruto e ostile,
sempre alle prese con un uomo rude
più che al fioretto avvezzo ad un badile.
Addirittura la picchiò, insensato,
solo perché lei a aveva portato
qualcosa da mangiare a chi non era
in grado di sfamarsi quella sera.
83
La sua salute in fretta peggiorò
straziata da frequenti convulsioni
ben presto, con dolore, in crisi andò,
e tratte furono le conclusioni.
Fu rimandata a casa dal fratello,
la decisione sua fu alquanto dura,
per non assoggettarsi quel fardello,
per lei ci fu una casa di cura.
84
San Benedetto è il nosocomio dove
Gertrude rimarrà per undici anni,
avrebbe preferito un altro altrove
e una vita tranquilla e senza affanni,
ma il fato volle agir diversamente,
colpendo una ragazza nella mente
e dentro sé, ben oltre l’mpossibile,
in una storia che ha dell’incredibile.
85
Ivi morì per una polmonite
degenerata in maniera importante,
le speranze e passioni inaridite
la vita sua che passa in un’istante.
A Forlimpopoli ancora bambina
che sognava una gioia piccolina,
poi l’affronto drammatico e umiliante
che tutto rovinò, in un istante.
86
Gertrude fu sepolta in un terreno
che era sfruttato dal San Benedetto,
senza un cordoglio o un solo pianto, almeno
e per la colpa di un destino abietto.
In seguito quel triste cimitero
fu lavorato e dissodato, intero,
per i progetti del nuovo acquirente
e di quei corpi più si seppe più niente.
87
Pare che Pellegrino l’abbia vista
finquando lei lo avesse conosciuto
come suo padre, ma non fu una svista,
allora era così, è risaputo,
la sensibilità era diversa,
a volte strana a volte un poco persa,
l’indifferenza assunta a giusto modo:
altro costume per un triste approdo.
88
Ultimo affronto, voluto o casuale,
trattata come ultimo rifiuto,
senza una tomba e senza un funerale
da sola se ne andò senza, un saluto.
Effetti di una strana umanità
che premia chi gran merito non ha
e spinge a volte quello più innocente
a sofferenze inutili ...per niente.
89
Ironia della sorte, quel dottore
che l’ebbe in cura e la conosceva,
disse che aveva solo un gran dolore
che l’animo ammalato la opprimeva,
da suo marito troppo disgustata,
in stanza sempre stava ritirata,
oppure se ne andava a passeggiare
nella campagna, sola, a meditare.
90
E sempre taciturna se ne stava
ma alle domande rispondeva bene,
in effetti, Gertrude, non sembrava
da deficienze così afflitta, orbene.
Ma quella notte qualcosa scoppiò,
e un po’ di lei, da dentro, si fermò.
Per quanto mi riguarda, la ragazza,
il medico affermò, no, non è pazza.
92
Questi miei versi sono dedicati
ai personaggi di cui si è parlato,
ma soprattutto a quelli condannati
da un miserevole e perverso fato.
Mi preme soprattutto ricordare
Gertrude e il suo calvario in mezzo a un mare
di atrocità, bassezze e incomprensioni
meschinità, perfidia e delusioni.
93
E voi, lettori dei mio poemetto,
pazienti e comprensivi a non finire,
ringrazio con sincero e grande affetto
e con abbraccio, ma vorrei capire
se vi è piaciuto quanto ho scritto su,
o qualche cosa non vi è andata giù,
ma, dal momento che ora siete qui,
propendo per un, sempre, grato, sì.
Poesia in esclusiva
Nuovo autore Maria Grazia Cavini 21/10/2024 15:43| 5

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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