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Siedo.
Contemplo questo intorno,
e le mie percezioni ch’esso move.
Nell’ignoto odo suoni,
e come sopra,
tra invisibili esistenze,
vedo forze danzare
e allor mostrare
innumerevoli strutture. In alto
poi guardo, nel cielo;
cotanto incanto seguo
dagli occhi miei basiti,
sì solerti
fra le vibranti stelle paglierine,
assai lontane e più vicine.
Nel buio più oscuro,
scruto a fondo e ancora osservo,
estasiato; rimiro e ben rifletto
sull’incalzante aspetto, fin che sento,
che tutto sembra quieto,
ancor men che indifferente,
fuor che l’ambiguo senno
di quest’io ramingo,
che m’appartiene; volente o nolente,
in me presente;
ardente ed evanescente,
come il tutto
che vien plasmato.
D’un tratto... una carezza;
e le pupille velo,
quando il lieve sospiro dell’aere,
dolcemente, mi desta
dal torpore del tempo;
le gote alte sfiora;
orbè rimembra
dal durevole susurro,
ch’entro me un infinito mai sazio
d’arcana conoscenza, si protrae.
Potrò mai colmar
quel che fine non ha?
Corro.
Un incessante e solenne cadere
giunge improvviso,
ma sentito, annunziato
da incombenti nubi lontane,
che vidi ahimè sospinte,
quando fui destato;
spaura e mi coglie;
è ormai tardi;
vado, m’affretto,
in un lampo lascio ogni pensiero,
poi che il rovescio intride
le membra mie,
perfino alla mente
che al baleno,
non più turbata è dalle idee
che sempre l’han compagnata:
or non bramo di saper
quale fatto mi volle
poc’anzi assiso;
non penso alla solitudine
o al dolore;
non temo d’obliare
i volti dell’amore
(dell’amore avuto e anche dato),
né di essere scordato,
e di madida pena non tremo,
nemmen per chi già non pensa.
Corro, e vivo
l’unica distrazione d’una vita. | |
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