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Al nefasto giudicio che mi fu tema
afflitto mi dipartii e senza speme.
Fu il dispero, tutto mi fu nero
spiraglio alcuno non vedea, invero.
Conobbi l’impotente debolezza,
nullo e nessuno davami certezza.
Nel Tempio mi trovai degl’Alemanni
come deporre i tanti, molti affanni.
Andò per tempo, non ricordo quanto,
da Croce, la vista, all’Azzurro Manto.
D’automa movenza fu all’ accender cero,
col cuor lo feci palpitante e nero.
La fiammella tremula, pencolante
poscia per l’alma mia fu illuminante.
Parea un varco mi si fosse aperto
in mezzo quel che grande era sconcerto.
Poi, di nuovo, cupa desolazione
e immensa ancora fu disperazione.
Col cuore infranto, stanco, sconfortato
in casa mi trovai, da trasportato.
Mentre mi riportavo al luogo mesto
fu il pensier mio determinato e desto
a ripassar in quel ch’è Sacro Luogo
onde scrollarmi del pesante giogo.
E, lì, rimasi infreddolito e stanco
con quella spina che pungeami il fianco;
lo guardo riandò su l’Effige Santa
e poi portossi alla Donna Santa,
e mentre la guardavo la pregavo
e nella prece tutto mi donavo
e mi pareva d’essere ascoltato
e mi pareva d’esser consolato.
E più guardavo quell’Effige Santa:
abbi fiducia, abbine sì tanta,
e più parea che cenno mi facesse
quasi che dir qualcosa mi volesse.
L’Effige ch’è in Croce mi rispose,
in testa Maria la Mano santa pose
e quel ch’accadde, poi, non parmi vero:
Schiarito fu, quel ch’era tutto nero.
Ed il sorriso ritornommi in viso,
lievi sentii le spalle, senza peso;
leggero dentro, senz’alcun tormento
un guardo, un grazie volsi al Firmamento.
Schiacciato fu il diagnosticato prima
poiché riposto avea tutta mia stima
al Creator di tutto, al Redentore
che sa donare gioia ad ogni cuore.
Quanto l’Onnipotente è umile e verace
tanto sei, uomo, tronfio e fallace. | |
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