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Rami secchi e sterpaglia,
freddi e sbiaditi bruciano,
brillano intensi, dispersi,
più bianchi della neve,
nel ventre del fuoco,
che ne macella la brace
in polvere e cenere.
Granuli vuoti tra le mani,
ricordo di chi non è più,
svaniscono attorno, nel nulla,
appena un alito spira riflesso al sole.
Cenere spenta urla ancora di vivere,
sparsa tra viole e freschi ulivi,
continua a gridare gli errori,
intanto, di madre in figlia sgorgano
nuove generazioni per una risposta.
Almeno ora, non fa così paura il fuoco:
cenere sono e per piacere,
cenere resterò. | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
«La cenere, simbolo, negativo per l'uomo di morte e penitenza, un immagine cara ai poeti perché ricorda il passato, informe e scolorito, incute paura perché è ciò che noi siamo. Allora, in un mondo in cui ci sono poche certezze tra cui la morte stessa, dovrebbe richiamarci a unire le nostre forze, insieme si può trovare come risposta al senso della vita l'umanità dell'uomo medesima, noi siamo cenere, forse il nulla da cui fuori nasce tutto il resto.» |
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