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«Il "poeta" che scrive questi versi è una costruzione razionale ed intellettuale prodotta dal soggetto scrivente. Costruzione strutturata a fronte della frequentazione della letteratura classica e consapevole di quel senso di perdita, relativamente al mito ed alla cultualità del linguaggio lirico, insito nella nozione stessa di "modernità". Il tema del "vecchio Sileno", ricorsivo ed ossessivo nella massa dei miei scartafacci, contiene in germe questo assunto, e si articola sulla sospensione della dimensione mitica, ormai incastonata, svilita e defunzionalizzata, tra le maglie della performante e sovrabbondante stratificazione culturale dell'attuale situazione storica. La scelta di una versificazione di tipo classicistico, o meglio neoclassico, vuole evidenziare la forzatura in termini di finzione, allegorica o semplicemente ludica, che caratterizzerebbe il componimento, soprattutto nel raffronto al suo contesto di appartenenza e di produzione linguistica. Ripropongo, dunque, un lavoro cui tengo molto e che, alla sua prima pubblicazione su questo sito, non ottenne l'attenzione che io, forse per sopravvalutazione autoreferenziale, mi sarei aspettato. Un ringraziamento ed .» |
Inserita il 16/11/2011 |
Vecchio il sileno intona,
nell'ora mattutina,
quel suo dolente canto,
presso un ruscello,
accovacciato all'ombra
delle frondose familiari selve.
In mezzo alle baccanti addormentate,
lascivi i corpi adagiati sul limo,
gli danza intorno la menade insonne
riverberando a mente,
del timpano percosso
nella trascorsa notte, le cadenze
e sulla bocca trasognata e stanca,
con voce assorta e fioca,
il verdeggiante tirso ormai dismesso,
quasi lamento
da un'epoca lontana,
evoè, evoè s'ode appena.
L'incavo della coscia rimirando
della baccante, il tendine contratto
ritmicamente al residuo entusiasmo,
del suo morire eterno,
pieno di desiderio egli vegliardo,
dolente il canto intona:
" Se questo canto il mio ventre rigonfio,
molle, grottesco scuote ed un beffardo
ghigno sardonico il mio volto ghinda,
ricordati di me, non farti scherno.
Il suo ventre rigonfio
quel canto scuote,
evoè, evoè, non schernire.
Sebbene flaccide, le vecchie braccia,
prime strinsero al petto il dio fanciullo
e la mia smorfia, dal suo volto lieto,
terribile il sorriso impresse al mondo.
Strinsero il dio fanciullo
vecchie le braccia,
evoè, evoè, dal suo volto.
Del giovane dio barbaro il corteo
veemente, il crotalo agitando, incalzo
e del tamburo frigio la membrana
allo straniero battito sussulta.
Del barbaro il corteo
crotalo incalza,
evoè, evoè, dio straniero.
Ma nel mistero all'apice, il dio ebbro,
latte di capra alla mia stessa coppa
suol bere. Allora un fremito profondo
scalda di donne ed uomini la carne.
Latte di capra bere
suole il dio ebbro
evoè, evoè, sua la carne.
Pertanto se la mia coda asinina
ed il tardivo amore di un vegliardo
movessero il tuo riso, abbi timore,
che della terra il fuoco è quest'amore.
La sua coda asinina
muove la terra,
evoè, evoè, fuoco, amore.
Ricorda questi versi, tieni a mente,
ripetili ai frondosi antri, alle genti.
Non appartengo al tempo dei mortali,
non mi lasciare al mio morire eterno.
Ripeti questi versi
bella danzante
evoè, evoè, tra i mortali. |
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