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Amarissima la sfortuna di chi ne ha più di noi,
e meno anche, meno d'altro, di quante
tonnellate si ammassano per esserne poi
schiacciati (noi) svuotati (loro),
a catena, a catenina d'oro, a man bassa.
Ammazza anche male un domino gigante,
intossica peggio di un veleno, Blu di Prussia
o Blu Klein, a spruzzarlo su dei jeans giorno
dopo giorno in una baracca, respirarlo,
strizzati, la dignità nello sguardo,
e liquidati con una mascherina simbolica, inefficace,
per tacer della paga, e del disprezzo.
Sicché tutte le parole sono cacca che uno caga al confronto.
Altre ingiustizie: i transistor, la leggerezza, la vanità
di chi si coccola con la pace
e la semplicità, in uno sguardo da ombelico,
o due ombelichi a specchio. Uguale all'affronto
dell'uomo Del Monte, le banane troppo grosse
per lo scaffale, a basso prezzo, a marcire in una pila,
o il modo elegante, da ristorante, banale, con cui
si taglia l'ananasso, su cui poi un altro si liquefa'
nel notarlo, col colpo di maglio di chi lo ha perso,
lo ha salutato per sempre, in un addio.
Lanciare il sasso e nascondere la mano,
nascondere la testa sotto la sabbia,
e la testa si fa sasso, la mano sabbia,
i nervi tra le due cortocircuiti uniti.
Tutti dettagli da annichiliti, polpa della colpa,
ipocrisia di chi sfrutta la frutta, in pratica,
e nessuno che ne parli, o lo noti,
al di là dell'aplomb di famiglia, dell'ignoranza,
della decenza del fazzoletto di carta,
accartocciato, umido in pugno. È in momenti
così che io stesso mi ripugno per essere vivo,
per la dolcezza funesta con cui arrivo
come un bastoncino di vaniglia, da un mercato
di Antananarivo, ad un supermercato mettiamo di Torino. |
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