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♦ Elena Poldan | |
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Luglio 2024 |
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Mi sono trasformato in adamantina campana
impenetrabile guscio dell'io,
poco entra e poco esce
tutto è opaco ed ovattato
tutto è sordo tutto è muto,
di un maestoso e ruggente concerto
mi giungono solo quiete,
quasi increspature sull'acqua,
le basse vibrazioni dei timpani,
di un limpido canto
colgo solo il rincorrersi
delle atone labbra.
E, per il mondo, rido e gioisco
di una gioia che è pianto,
di sorrisi che sono mille
lacrime sapor del mare,
e anche ciò
è uno squallido teatrino
di cui io solo sono il pubblico,
in realtà sono come vetro:
la luce lo trapassa
senza mai ferirlo,
turbarlo.
Le più dolci carezze
son fievoli brezze
che appena mi sfiorano
passando a stento tra le sbarre.
Forse è mio destino passare
da una prigione ad un'altra,
ma com'era magnifica la vecchia:
dalle sue finestre senza vetri
entrava mugghiando
il mare e lottavo
per non affogare.
O com'era solenne
nella sua desolata e fredda architettura
la prima.
Ora invece giaccio,
quasi come tra guanciali
di seta, che gioia
quando quel morbido giaciglio
diventa l'irto letto
di un fachiro!
Unica libertà il cadere:
quando mi dibattevo
frenetico nel fango grigio
incapace perfino di gridare.
Eppure, forse, solo nel buio
di una notte fredda
si colgono davvero i colori,
dove morire vuol dire
sentirsi vivo. | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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