io vorrei proporre una riflessione che mi è sorta ieri notte al riguardo. Ho cercato di andare un pochino oltre il clamore della notizia in sé, per quanto la consideri come un vero e proprio shock destabilizzante per tutti noi…
Scusate la prolissità del mio scritto, ma non ho potuto che lasciare la penna scorrere, senza ritegno:
“Je suis Charlie” - la libertà d'espressione. A che pro?
Dopo il becero attacco terroristico di Parigi, il leitmotiv di questi giorni è la rivendicazione di una delle più importanti libertà dell'uomo: la libertà d'espressione. A fronte di questo atto bestiale, infatti, si è innalzato un coro di protesta generale, si sono organizzate manifestazioni in tutto il mondo e le coscienze sembrano essersi, tutt'a un tratto, risvegliate. Tuttavia, se oso azzardare ad incedere con il mio pensiero oltre al fatto in sé, che certamente riconosco come brutale e deprecabile, mi vedo costretto a fare una riflessione ulteriore.
La libertà di espressione, infatti, è diventata un caposaldo della nostra società considerata "civile", almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, da quando l'Occidente è riuscito, a caro prezzo, a liberarsi dalla sottomissione dei regimi totalitari. Ma questa conquista, al giorno d'oggi, mi sembra che si sia ribaltata.
Cercherò di spiegarmi meglio:
secondo me tutta questa libertà di espressione sta portando all'obnubilamento del significato autentico del linguaggio e della comunicazione umana. Quando sento ripetuto come un mantra la frase topica di questi giorni “Je suis Charlie”, mi domando cosa questo significhi per la maggior parte delle persone che la pronunciano. Chi rivendica la propria libertà di espressione, a che pro intende utilizzarla? Nell'era della comunicazione di massa, dove le possibilità di comunicazione appaiono infinite e chiunque ha il diritto/dovere di esprimere un'opinione, quale valore autentico emerge da tutto questo parlare?
Il mio pensiero a riguardo può risultare arrogante, anti-democratico e forse un po' pomposo. Ma io credo che tutte le più alte manifestazioni del sublime, inteso come espressione dell'essenza autentica dell'esser uomo, si siano sempre contraddistinte per la propria esclusività. Credo che le parole che “inceneriscono i cuori delle generazioni ed aprono un varco verso il futuro” (cit. Jakobson) siano rare ed inestimabili. Credo che soltanto la “voce fuori dal coro” venga realmente ascoltata e che la troppa libertà d'espressione equivalga all'azzeramento totale di significati, nonché all'appiattimento ed alla standardizzazione dell'espressione stessa.
Vi è un sovraccarico di informazioni al giorno d'oggi, tale per cui la parola autentica non riesce più a farsi veramente sentire. Ascoltando dibattiti elettorali o certi convegni politici, oppure leggendo certi articoli di giornale a dir poco obbrobriosi, mi pare solamente di recepire un grande clangore di grilli ciarlanti e nulla più. Basti constatare il continuo sorgere dei più svariati forum on-line, di discussioni feroci sui social network, di furiose liti televisive… Pensandoci, nel profondo, che cosa esprimono sostanzialmente ed effettivamente tutti questi sproloqui?
"Ad un cane che si morde la coda", ecco a cosa ci ha ridotti la troppa libertà di espressione.
Vi è il soffocamento forzato delle voci che realmente avrebbero qualcosa da dire, a fronte di boccacce ciarlanti, che vengono udite e, alla lunga, recepite, semplicemente perché gridano più intensamente e più assiduamente di altre. La politica ne è l'esempio lampante, basti pensare al riccioluto sbraitante, piuttosto che al ciucia-nèbia che una ne pensa, e cento ne fa, oppure ancora a quella pseudo-politica-redattrice-neo-fascista che vuole accaparrarsi voti pubblicando il Charlie Hebdo, che simboleggia l'esatto opposto di tutto quello che lei ha impersonificato nella sua effimera carriera “politica”. E qui mi fermo.
Quando si dice “Je suis Charlie”, bisognerebbe prima riflettere bene a cosa questo significhi. La morte dei fumettisti francesi assume valore soltanto nel momento in cui ci si ferma a meditare a fondo la cause e le conseguenze di questo sacrificio. La libertà di espressione non significa libertà di gridare più forte degli altri. Libertà di espressione dovrebbe significare innanzitutto il prendersi la responsabilità di ciò che si dice.
Anche se oggi giorno tutto appare mutabile, leggero ed estremamente metamorfico, infatti, una cattiva parola può influire in maniera molto più incisiva di un colpo di pistola. E sentirsi bombardati quotidianamente da giornali farlocchi dediti allo scoop - che più cruento e portatore di nuovi scoop, tanto meglio - è il vero nemico dell'espressione autentica. E sentire pseudo-giornaliste che si spacciano per Marie Terese di Calcutta piagnucolando e spettegolando sulla morte e sulle disgrazie altrui è la vera morte dell'espressione autentica.
“Je suis Charlie” dovrebbe assumere un senso molto più ampio e profondo, dovrebbe insegnarci a sublimare le nostre idee, lavorandole autonomamente per poi poterle esprimere in maniera degna ed efficace. Questo è il valore inestimabile del sacrificio di Charlie Hedbo, e bisogna assolutamente evitare di cedere alla pericolosa scappatoia del razzismo fine a se stesso. Facile è applicare giudizi a posteriori, molto più difficile indagare le vere cause del misfatto.
Detto ciò, i fatti di questi giorni spaventano davvero. Come potrebbe reagire ad una possibile e reale minaccia terroristica la nostra società attuale?
Non lo so, ed ho udito soltanto un parere che ritengo il più meditato ed il più valvole. Mi pare fosse un intervento di Cacciari... ma nessuno ne parla, nessuno lo ascolta, perché i grilli ciarlano, le Marie Terese di Calcutta piagnucolano, i “Je suis Charlie” vengono travisati, i social network intasati di banale ripetitività e, ovviamente, i reality show avranno comunque la meglio.
Almeno fino a quando non saremo costretti a risvegliarci bruscamente da questo ozioso torpore, da questa inedia autolesionista ed apparentemente “civilizzata”.