fa parte di uno stralcio lungo, di una recensione su un libro di cui riporto il link. lo trovo molto interessante.
Si tratta di questioni che richiederebbero centinaia di pagine. E allora torniamo, anche qui sinteticamente, a domandarci qual è oggi la funzione della poesia. È la questione delle questioni, e dirò solo due parole rapide. Io credo che solo il porsi la questione della “funzione” di un poeta distrugga l’immagine del poeta stesso. La poesia non “serve”, non ha utilizzazioni pratiche, né finalità materiali. Questo non significa che la poesia abbandoni la realtà, tutt’altro; la famosa espressione “arte per l’arte” (la frase di T. Gauthier) non è un dogma, perché attraverso l’arte si può combattere, ci si può in ogni caso spendere per un’idea, ma l’arte in sé non serve a nulla. Questa è una prima convinzione che dovrebbe stare nelle nostre teste. Poi possiamo applaudire il poeta che recita in piazza, andando a casa colmi di quell’indefinibile soddisfazione che deriva dal profumo dell’arte. E per una volta mi viene voglia di citare il controverso Ezra Pound, allorché scrive: “L’arte non chiede mai a nessuno di fare nulla, di pensare nulla, di essere nulla. Esiste come esiste l’albero, si può ammirare, ci si può sedere alla sua ombra, si possono coglierne banane, si può tagliarne legna da ardere, si può fare assolutamente tutto quel che si vuole”.
Saul Bellow scrive nel suo libro: “I poeti sono amati, ma solo perché non sanno stare al mondo”, aggiungendo che è grazie a loro che il resto del mondo sopporta il cinismo a cui la vita lo costringe o a cui l’esistenza lo invita. Un poeta come Humboldt esiste perché deve portare su di sé lo “sporco” del mondo, la sozzura che le persone normali incontrano, producono o subiscono e che non sanno cancellare. Il poeta redime il mondo, soffrendo per le brutture degli altri. E cercando di lavarle via.
Allora il poeta non serve davvero a nulla, e lo dimostrano le pagine più pure delle poesie che amiamo. E poi: un poeta non sa operare un paziente, né guidare un aereo, progettare una casa o un ponte. Ma è un’entità che scrive e crea. E proprio qui c’è il riscatto del poeta, io direi, il nucleo centrale del libro di Bellow, almeno per come l’ho letto io. Bellow lo dice chiaramente. Egli afferma, infatti, che il poeta non deve avere un’identità. L’identità ci viene concessa dalla sfera sociale ed è un’etichetta che ci rende riconoscibili all’esterno, nei nostri rapporti sociali e umani. Siamo operai, impiegati, insegnanti, professionisti, ingegneri, attori, musicisti, disoccupati e così via. L’identità è un segno o un odore di riconoscimento. “Il tuo cane ti riconosce”, dice Bellow.
Invece, gli uomini di grande valore (e non sempre gli artisti lo sono) sono un’entità, non si devono quindi limitare ad avere un’identità. Il poeta non ha alcuna identità, intesa come etichetta sociale, come “maschera” da indossare sempre, perché egli sa guardare dall’alto quel “qualcosa”, magmatico e indefinito, che vive nel mondo. Egli dunque “È” un’entità, ovvero un uomo che non si perdona mai, che non è indulgente con se stesso, perché ha nella testa la sua grandezza e, come un ossesso, sa che deve raggiungerla, a volte scarificare a lei la propria esistenza.
Chi ha semplicemente un’identità, e s’accontenta di essa, è più indulgente con se stesso; probabilmente vive meglio, con maggiore calma, almeno in superficie: si siede sul suo divano, si versa da bere, guarda la TV, magari legge i poeti. Chi è un’entità, invece, è uno schiavo dell’arte. “Un’entità è una potenza impersonale che può fare spavento”, afferma Bellow. Ecco, il poeta dovrebbe imparare a spaventare gli altri, a mettere in crisi, a pungere le anime atrofizzate. Un destino davvero ingrato, ma irrinunciabile.
Giuseppe Barreca
http://www.filosofipercaso.it/?p=370