Autore Topic: G. Leopardi, "Alla Luna" 1820  (Letto 2635 volte)

0 Utenti e 1 Visitatore stanno visualizzando questo topic.

Offline Francesco Pozzato

G. Leopardi, "Alla Luna" 1820
« il: Mercoledì 6 Luglio 2011, 20:39:07 »
ALLA LUNA

   O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!


Composto nel 1820, l’idillio venne pubblicato per la prima volta nell’edizione dei Versi del 1826 col titolo “La Rimembranza”, che mutò in “Alla Luna” nella definitiva dei Canti del 1831. Rivisto dal poeta poco prima della morte, ebbe l’aggiunta dei vv. 13-14 nella stampa napoletana del 1835 curata da A. Ranieri.
Ancor più nella prima che nell’ultima versione, la particolare struttura metrica del canto, l’idillio appunto di 14 e poi 16 endecasillabi sciolti, può facilmente essere assimilabile al sonetto, di cui scardina ad ogni modo la sequenza rimica con l’abolizione delle stesse e la forma chiusa attraverso l’uso sistematico dell’enjambement (vv. 1-2; 2-3; 6-7; 7-8; 10-11; 11-12; 12-13; 13-14).
La lirica si articola in due momenti: l’allocuzione alla luna, incorniciata dalle due apostrofi (vv. 1-10), e il monologo raziocinante (vv. 10-16) che enuncia una legge generale sulla dolcezza del ricordo.
Il notturno che occupa la prima parte del canto è un’esemplare applicazione dell’affermazione romantica secondo cui ogni paesaggio è la rappresentazione sensibile d’uno stato d’animo. Sulla luna è proiettato il dolore (“angoscia”, v. 3) dell’io lirico e la visione “graziosa” e “diletta” viene trasfigurata in nebbiosa e tremante, quindi luttuosa, dal pianto. Lo scarto dalla mera descrizione paesaggistica, tipica delle origini bucoliche dell’idillio classico di Teocrito, è segnalato ai vv. 8-10, dove la focalizzazione si sofferma sul carattere travagliato della vita del poeta, di cui la luna altro non è che gemella e interlocutrice privilegiata perché mistero della natura. Il satellite luminoso tuttavia immette una nota di dolcezza che funge da catarsi patetica (riscontrabile anche in chiusa a “L’Infinito”) per il dolore del poeta che avverrà nella seconda parte del canto.
Argomentata anche da un passo dello Zibaldone di Pensieri, Leopardi definisce la teoria degli anniversari, per la quale il tempo del ricordo avrebbe una percezione consolatoria rispetto al tempo della distruzione. Infatti, la luna, espressione sensibile della sera, è da considerarsi di per sé metafora della morte (“della fatal quiete…l’imago”, per dirla con Foscolo che tanto influisce sulla formazione poetica del recanatese) e allo stesso tempo, sulla base dell’anniversario (“or volge l’anno”, v. 2), idea di circolarità e di ritorno, ovvero di speranza e rinascita. Su quest’ottica apparentemente ottimistica ricade pesantissimo il martello del pessimismo cosmico della seconda stagione poetica leopardiana, inaugurata dalle Operette Morali del 1823 e dalle canzoni pisano-recanatesi, a cui il poeta da voce nei vv. 13-14 aggiunti in seguito: il potere positivo del ricordo è massimamente efficace nel “tempo giovanil” (v. 13), quando la speranza è ancora viva e incorrotta e il peso della memoria è meno grave.
Facile allora istituire un parallelo con “L’Infinito”, soprattutto a livello di densità tematica e stilistica. Punto di partenza della riflessione esistenziale è un dato sensibile del paesaggio circostante (qui il volto della luna, là la siepe), il quale agisce sulla facoltà d’immaginazione del poeta esaltandola. Questo processo emotivo provoca una sensazione di piacere, inteso nella teoria edonistica leopardiana sul modello di Schopenhauer come cessazione momentanea del dolore, a partire dal potere irrazionale del ricordo (qui “E pur mi giova/ La ricordanza, e il noverar l’etate/ Del mio dolore”, là “E mi sovvien l’eterno/ E le morte stagioni, e la presente/ E viva, e il suon di lei”).
Affinché una tale profondità di pensiero possa essere compiutamente espressa, Leopardi si avvale di una successione di periodi che istituiscono un ragionamento filosofico (palesemente sensistico e quindi antiromantico!), il quale non può rientrare negli schemi prestabiliti e chiusi della canzone e del sonetto petrarcheschi, ma deve necessariamente articolarsi attraverso una struttura più ampia e libera, come l’idillio in questo caso o la canzone libera negli anni a venire. Si notino allora l’addensarsi degli enjambement che Leopardi probabilmente ammira nel Tasso e l’uso logico della punteggiatura a scandire i momenti della meditazione e gli incisi chiarificatori.
Caratteristico degli idilli è un lessico indefinito e infinito, teorizzato dal recanatese già nello Zibaldone, a partire da una strenua difesa dell’alta specificità immaginifica della lingua poetica italiana (parole) rispetto alle lingue filosofiche e quindi precise (termini), come il francese.
« Ultima modifica: Mercoledì 6 Luglio 2011, 20:41:15 da Francesco Pozzato »
Francesco, scudiero dei classici