Che la nostra sia un’epoca dominata dall’ipocrisia, è una cosa sotto gli occhi di tutti: i sociologi chiamano il nostro tempo “società dei consumi”, io la chiamerei più a ragione “società dell’ipocrisia”. E in tutti i campi, nel pubblico e nel privato, dai grandi governi che discutono ai G8 sulla fame del mondo e poi portano guerra e distruzione, a noi tutti che mandiamo 2 euro tramite messaggino ai terremotati poi spendiamo 200 euro per un paio di scarpe.
L’ipocrisia è avvertita soprattutto nei nostri discorsi. Michel Foucault, storico e filosofo francese del secolo scorso, analizzò le parti e l’ordine del discorso concludendo che nel nostro parlare ci sono diverse procedure “di esclusione”, ovvero modi in cui certe cose possono o non possono venir dette: molto in breve, “l’interdetto” (argomenti tabù come per esempio sesso e politica), “partizione della follia” (le parole del folle, che non vengono nemmeno calcolate), “il vero contro il falso” (ogni società ha un ordine di verità, accetta alcuni discorsi come veri, altri li rigetta come falsi). Dietro questi tre tipi di procedure, c’è per Foucault una volontà di fondo di impedire “l’anarchia della parola”; non sto a dilungarmi molto perché l’argomento non è certo questo, ma mi piace fare premesse ampie. Per allacciarmi al mio discorso, credo nella nostra società ci sia un’ulteriore procedura d’esclusione che abbraccia tutte le altre, ovvero quella dell’ipocrisia: qualcosa non può essere detta? allora la si sostituisce con un'altra, con un tacito accordo da parte di tutti che – inconsciamente o meno – la accettano come vera e come possibile, pur sapendo – sempre inconsciamente o meno – che in realtà si vorrebbe dire qualcos’altro, di più vero e più possibile, più plausibile.
Per entrare nel merito – “finalmente” direte voi! – di questa discussione specifica, una delle etichette che spesso, ma non sempre, fanno parte dell’ipocrisia è la cosiddetta “umiltà”. Che è un valore assoluto nella nostra società, molto più importante, a detta di molti, del valore della famiglia, dell’amicizia, o di altri: si sente dire spesso che l’umiltà sia la base per raggiungere grandi obiettivi, colui che non è umile rimarrà nella sua superbia a marcire. Tra l’altro, questo è un valore che nell’antica Roma, per esempio, non era contemplato, non esisteva nemmeno la parola “umiltà”: “humilis” e “modestia” significavano ben altro, ovvero, tra gli altri significati, la condizione sociale; anzi, proprio in virtù della condizione sociale, il valore più importante era quello di “elevarsi”. L’autocelebrazione e l’ambizione erano confessabili, anzi, necessari per essere ammirati. Basti pensare alla trentesima ode del terzo libro dei Carmina di Orazio (“exegi monumentum aere perennius”) in cui egli afferma di aver costruito un monumento perenne con la sua poesia: avesse scritto una cosa del genere ai nostri tempi, l’avrebbero subito etichettato come superbo, presuntuoso ed arrogante, invece proprio questa sua presa di coscienza – che fosse vera oppure no interessava poco – acuiva, presso i suoi contemporanei, la sua grandezza. Non fraintendetemi: non voglio propugnare un ritorno al tempo dei fasti dell’Impero Romano, assolutamente! Questa digressione storica era solo per spiegare che un valore così importante come l’umiltà non è così assoluto come si potrebbe pensare. Così come molti altri valori, del resto.
Ciò che, senza dubbio, ha contribuito notevolmente a creare l’umiltà come valore è la religione cristiana: sicuramente io non sono contro l’umiltà a priori, sempre e comunque, anzi, a volte, in determinate situazioni, è decisamente una buona cosa; piuttosto, io mi chiedo come mai nella nostra società l’umiltà sia così tanto determinante e, soprattutto, come mai sia diventata una forma di ossessione tale da farla rientrare, spesso – spesso ma non sempre, ripeto! – nell’ambito delle ipocrisie quotidiane del nostro tempo. Io ritengo che a volte l’umiltà e la modestia siano falsi pregi in quanto, a parte l’ipocrisia, essi sono capaci di attirare verso di sé lodi del tipo “guarda quello lì, è bravo e pure umile”. Se una persona si crede superiore e invece non lo è, il problema è suo, non certo degli altri, allora perché biasimarlo? Al massimo la cosa migliore sarebbe lasciarlo “cuocere nel proprio brodo”, no? Come mai non è possibile esprimere ciò che si pensa liberamente riguardo sé stessi? Perché il solo ponderare di essere meglio degli altri è motivo di biasimo da parte di tutti? E perché infine bisogna dissimulare questo ritenersi migliori dietro l’etichetta dell’”umiltà”?
P.S. Ripeto ancora una volta affinché non me lo si dica nemmeno una volta: spesso (o “ a volte”, fate un po’ voi) ma non sempre l’umiltà è ipocrisia.