Una cosa proprio non la capisco: perché si debba augurare pace e serenità solo a Natale. Vorrei conoscere uno di voi che abbia fatto lo stesso augurio qui sul forum a ferragosto o magari il 13 maggio o il 27 febbraio. Invece no, tutti ad augurare pace e serenità alla fine dell’anno, come se la fine dell’anno (una semplice convenzione) possa rappresentare uno spartiacque tra quello che è stato e quello che sarà.
Come se il semplice passaggio da un anno ad un altro non fosse semplicemente la fine di un giorno e l’inizio di un altro come tanti.
Quante albe ancora vedremo? E quante volte augureremo alle nostre compagne, ai nostri compagni, ai figli, alle madri ed ai padri un “buongiorno” che non sia solamente un’abitudine o una frase di circostanza e quante volte comprenderemo che la pace e la serenità non piovono dall’alto, non sono frutto di un augurio seppur sentito e sincero; la serenità è una conquista, come la pace, ed entrambi sono frutto di lotte continue. E’ davvero strano come la pace abbia un senso solo in virtù del fatto che esista la guerra; noi tutti deprechiamo la guerra ed osanniamo la pace, ma allora spiegatemi che senso avrebbe augurare la pace se non si conoscessero gli orrori della guerra? Si devono dunque ringraziare i “signori della guerra” se grazie a loro riusciamo ad apprezzare la beatitudine della pace?
Ma questo non c’entra, come al solito divago.
Quello che voglio dire è che ormai, dall’alto dei miei anni, non riesco più ad augurare nulla perché mi accorgo di avere una forma di repulsione verso gli auguri in generale. Non fraintendetemi, mi piacerebbe che ognuno di voi dal primo gennaio diventasse di colpo una della persone più felici della terra, ma non riesco ad augurarvelo perché avvertirei nel suono della mia voce il contrasto tra il mio vissuto e le utopie di cui questi giorni sembrano intrisi.
Lo vedo nei nostri figli che altalenano tra sogno e disincanto; sentono diversi questi giorni solo per le luminarie in casa e per strada, per il resto hanno abbastanza intelligenza per comprendere che non saranno i buoni propositi o gli auguri del 25 dicembre o del primo gennaio che gli porteranno il pane sulla tavola e che per riuscire a realizzare sogni ed “auguri” e necessario rimboccarsi le maniche, fare piazza pulita del marciume che ci circonda.
Elisabetta è un esempio, lei non aspetta Natale per “sentirsi” buona, non si riempie la bocca di auguri che il 7 gennaio sono già accantonati, dimenticati. L’aiuto che offre disinteressatamente a chi ne ha bisogno vale molto di più delle nostre vacue parole e dei nostri “Buon Natale “ e “Felice Anno Nuovo”.
Per questo non farò auguri a nessuno, non ne avrete bisogno; se sapete dove volete arrivare ed avete abbastanza coraggio ed intraprendenza ci arriverete, altrimenti fate come me: consolatevi con i traguardi conquistati da altri e battete le mani quando vi dicono che siete il popolo più “grande” del mondo e, se un tribuno vi adulerà per altri fini, augurategli Buon Natale e Felice Anno nuovo; chissà magari vi regalerà un panettone.