Quest'ultima l'avrei accettata...a parte gli scherzi io non banno nessuno né mi sono mai sognato di proporre pratiche del genere. Ti avrei chiesto di spiegarmi una sola cosa, perché hai scritto 'di cosa mangio' anziché 'che cosa mangio' che mi sembra più corretta. Nel tuo caso poi (diamoci del tu) non sussisteva alcun motivo. Mi ero messo per un attimo solo nei panni di un redattore di una rivista letteraria e mi sono chiesto, in base alle mie convinzioni, come mi sarei comportato di fronte a un componimento del genere.E poi non era il tema della discussione? Io sono abituato ad avere a che fare con referees di riviste (scientifiche nel caso mio), a volte tra l'invio dell'articolo e la pubblicazione può passare anche un anno perché qualche referee non è convinto di quel che hai scritto o di certi passaggi e allora s'innesca una fruttuosissima quanto estenuante discussione nella quale si scende nei minimi dettagli.Il tutto avviene in inglese che complica di molto. Per fortuna finora non ho avuto mai un rifiuto ma l'ho rischiato diverse volte e comunque ho quasi sempre sudato per farmi accettare gli articoli. Ma non recrimino sul sistema, lo ritengo necessario. Ciao
Angelo ( si diamoci del tu che è meglio, anche se al momento non sono troppo infastidito: non so se ci hai fatto caso, quando sono infastidito do del tu a priori… brighella!) questa è un’osservazione che non è la prima volta che mi si fa, e come altre volte mi trovo a dover spiegare: Far sapere cosa si mangia è una cosa irrilevante sul piano intimo. Più profondo, quindi da tenere ben celato, è far sapere “di” cosa si mangia. So, anche se suona male musicalmente, che rinunciarvi è come rinunciare alla classica ciliegina sulla torta, insomma. Nella scena infatti, ho dipinto un personaggio che, come mi è stato espresso nel commento più vicino al significato della stessa, “si legittima nello sprecare la vita”. Un personaggio cupo, sicuramente scontroso, avido, che vive la sua grottesca solitudine come una sublimazione dell’esistenza, da tenere ben nascosta, segreta appunto. Nonostante sia evidente la condizione della sua esistenza agli occhi di chi lo frequenta occasionalmente, come il postino o gli avventori del fine settimana, lui non lo sa, fa finta che non lo sa, non se ne vuole rendere conto, soprattutto non vuole sapere se gli altri se ne rendano conto. Come voler evitare interferenze con i suoi tanto cari privati piani di processo alla vita. E di questo appunto mangia, di solitudine protetta, di cose che non si ritengono sane, indispensabili, che lui per sé decide e solo lui può smettere. Il pane al pomodoro, metaforicamente è la vita, che lui mangia avidamente, spesso ciucciandosi le dita alla fine, ma in segreto, e da concludere correttamente se è in vista possa giungere qualcuno, sorprendendogli quella stana luce negli occhi, quella sua eccitazione che è quel qualcosa a cui lui non rinuncerà, che non molla a nessuno, mollandogli piuttosto il suo ghigno, quello sicuro, quello preventivo sempre in ombra.
Ora, non sai quanto detesto spiegare le cose che scrivo, ritengo le poesie che si scrivono non vadano MAI spiegate. Ognuno prende ciò che vuole, ci vede ciòche vuole, ciò che ha. Ed ha la sua immaginazione, la sua esperienza cognitiva, la sua sensibilità, questo deve bastare, e viva Dio la poesia è bella proprio per questo. La poesia racconta, e a ognuno ciò che si vuole/deve raccontare.
Poi, ricordo dei tuoi impegni, della tua professione, abbiamo avuto l’occasione di scambiare due chiacchiere in luogo dell’incontro a Roma. Ti ricordo simpaticamente. Un saluto.
Chiedo scusa a chi ha aperto il topic se sono andato un po' fuori tema (a questo punto sembra sia stato aperto per me) e se ho annoiato qualcuno con le mie dilungazioni (io sono sempre quello che detesta le dilungaggini, eh!)