Autore Topic: Il veleno del linguaggio  (Letto 7372 volte)

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aureliastroz

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #15 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 17:41:50 »
Quando si legge un topic si dovrebbe imparare ad intervenire solamente ad idee focalizzate, mentre a volte si interviene per esprimere concetti subitanei che poi non sono seguiti da nessun tipo di spiegazione proprio perché immediati ed “a caldo”.
In questo senso trovo poco ortodosso ed inutile il mio primo intervento (su questo stesso topic).
 
Ci sono due aspetti da prendere in considerazione su quanto detto da Massimiliano e da Barbara.
E’ ovvio che sia, non solo accettabile, ma, auspicabile, un confronto con la “diversità” intesa non come fattore derivante da incontri fra culture interetniche, ma come capacità di riuscire ad attingere a forme di comunicazione diversificate. Non ha importanza la cultura “sociale” dell’interlocutore, quanto la possibilità che l’incontro possa permettere un arricchimento del linguaggio, dell’espressività attraverso la parola sia essa scritta o verbale..
E’ vero che, in genere, si tende a privilegiare, nella lettura, sempre gli stessi autori, ma io credo ciò avvenga, non già per una presa di posizione preconcetta,  quanto per la constatazione che, attraverso tali letture si fondino i presupposti per ricevere nuovi e più interessanti stimoli.
La lettura di autori che si sentono più vicini alla propria formazione, non ghettizza la cultura e la produzione delle proprie opere, ma attraverso un processo che potremmo definire “osmotico”,  permette di assimilare e metabolizzare più velocemente i concetti che in altre forme di espressioni più elementari o ripetitive potremmo trovare monotone e svilenti.
Direi che bisognerebbe leggere di tutto, ma è inevitabile che la nostra attenzione si fissi e sia attirata da quelle opere che,  per espressione e contenuti, siano fonte di arricchimento.

Non trovo, quindi, nulla di deprecabile nella lettura di autori che per le loro capacità espressive, per il pathos,  l’originalità dei contenuti,  lo svolgersi delle azioni che possono configurarsi al di fuori degli schemi canonici, per il possesso di un vocabolario esteso e utilizzo del linguaggio in maniera originale e intelligente, possano arricchire la nostra cultura.
Mentre trovo sia una inutile perdita di tempo leggere e frequentare gli scrittori che si adoperano ostinatamente a frequentare percorsi ordinari, abusati e  monotoni, senza avvertire la benché minima necessità di arricchimento continuando, invece, a ritenere la propria produzione immutabile, inappuntabile e al di sopra di qualunque considerazione di merito. 

Ma ovviamente questo era per rispondere a Barbara ed in parte a Massimiliano e, purtroppo, poco c’entra con il tema del topic (vediamo  se riesco ad intervenire anche su quello).



« Ultima modifica: Mercoledì 10 Marzo 2010, 17:43:26 da Il Conte »

aureliastroz

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #16 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 18:09:39 »
Riprendo il concetto di apertura di questo topic.
La necessità primaria della comunicazione è, innanzitutto, appurare che gli interlocutori siano in possesso di una serie di strumenti (protocollo) che permettano una comprensione reciproca ( ad esempio che tutti parlino il medesimo idioma, che tutti siano in grado di comprendere ogni singola parola e, dove questo non fosse possibile, che tutti siano in possesso di uno strumento che renda loro comprensibili eventuali parole sconosciute, che tutti abbiano la capacità di parlare e di udire, ecc.).
La mancanza di uno solo di questi strumenti da parte di un singolo renderebbe la comunicazione fallace e perciò a senso unico.
Per ciò che concerne la rappresentazione visiva degli oggetti è necessario che (come Massimiliano ricordava) ognuno abbia la cognizione dell’oggetto o che in qualche modo si possa ricorrere ad una ricostruzione, anche se parziale, dell’oggetto stesso.
L’oggetto, nella rappresentazione colloquiale o scritta, non è una trasposizione della forma reale, ma una virtualizzazione mentale della sua identificazione soggettiva (colore, forma, dimensione).
Per questo alla parola mela, ci sarà chi assocerà il concetto di rosso, chi il verde, ma si potrà verificare anche l’eventualità che qualcuno associ il vestito di Biancaneve o una strega maligna, ma tutti avranno comunque il concetto di mela. Il problema sorge quando “mela” è un concetto astruso, in quel momento il protocollo di comunicazione si interrompe ed il dialogo diventa incomprensibile; lì ci sono due possibili vie d’uscita: o si fornisce il concetto di mela all’interlocutore o cade la comunicazione (un po’ come nei computer).

Offline Amara

Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #17 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 18:51:32 »
E’ vero che, in genere, si tende a privilegiare, nella lettura, sempre gli stessi autori, ma io credo ciò avvenga, non già per una presa di posizione preconcetta,  quanto per la constatazione che, attraverso tali letture si fondino i presupposti per ricevere nuovi e più interessanti stimoli.(...) “Direi che bisognerebbe leggere di tutto, ma è inevitabile che la nostra attenzione si fissi e sia attirata da quelle opere che,  per espressione e contenuti, siano fonte di arricchimento.

d'accordo con il Conte....

ho letto e riletto il topic... ne traggo però un dubbio...
se chi scrive deve guardare alla condivisione del significato.. si sentirà legato nell'esprimersi..
intendo dire.. che non si sentirà libero di utilizzare il linguaggio che gli è proprio.... se risultasse di oscura comprensione..
o forse.... è sufficiente un linguaggio evocativo..che se pur incompreso..regali comunque immagini elaborate dal lettore?
se non ho compreso... me ne scuso.
Il dubbio è uno dei nomi dell'intelligenza
(J. L. Borges)

aureliastroz

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #18 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 19:23:31 »
d'accordo con il Conte....

ho letto e riletto il topic... ne traggo però un dubbio...
se chi scrive deve guardare alla condivisione del significato.. si sentirà legato nell'esprimersi..
intendo dire.. che non si sentirà libero di utilizzare il linguaggio che gli è proprio.... se risultasse di oscura comprensione..
o forse.... è sufficiente un linguaggio evocativo..che se pur incompreso..regali comunque immagini elaborate dal lettore?
se non ho compreso... me ne scuso.


In un certo qual senso chi scrive cerca di condividere, e dunque è necessario che egli in qualche modo si adoperi perché il suo linguaggio sia correttamente interpretato, d’altro canto egli non può in ragione di ciò limitare la sua espressività e sarà dunque maggiormente il lettore che dovrà (se ne avrà voglia) dotarsi di quegli strumenti che adeguino le sue conoscenze al protocollo di comunicazione adottato dallo scrivente.
Se così non fosse, se fosse cioè lo scrivente a doversi adattare, ne soffrirebbe la capacità di espressione e la comunicazione si appiattirebbe sull’utilizzo dei pochi fonemi necessari a enunciare un concetto nel modo più primitivo possibile.
Per quanto riguarda il linguaggio evocativo nella lingua scritta, esso è paragonabile probabilmente alla gestualità con cui si accompagna un discorso parlato, ma di per sé non è sufficiente a sostituire  i concetti filosofici ed astratti che a volte impregnano certi discorsi.



Non so se mi sono capito... ;D
« Ultima modifica: Mercoledì 10 Marzo 2010, 19:27:42 da Il Conte »

Offline Marina Como

Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #19 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 19:26:07 »
Se davvero vogliamo comprendere quelle che il poeta ci dice, se davvero vogliamo penetrare nella sua mappa del mondo, non dobbiamo limitarci a leggere ciò che scrive, ma dobbiamo imparare a recitarlo.

Che indendi per recitazione?  Se è quello scavare nelle parole sino a che non si è sicuri di aver trovato una chiave interpretativa, una sfumatura delle parole, o quello di cercare di immedesimarsi (mascherarsi, recitare) nell'autore, allora si: una poesia va recitata. E come ogni recita, ed ogni buon attore lo sa, ci si mette del suo, anzi, più un attore mette il suo carattere in un personaggio, tanto più si discosta dal banale della maschera che interpreta, tanto più la recita è riuscita.
Allo stesso modo, più una poesia riesce a coinvolgere ed essere rappresentata da "mondi" differenti, dai diversi modi di sentire, tanto più essa è riuscita, secondo il mio parere.
Ma... su una cosa discordo: limitazioni della struttura stessa del sito sicuramente non permettono una totale libertà di espressione (penso ad es agli ideogrammi) ma quanto sono vari i nostri poeti, invece! Davvero si leggono molti e differenti modi di far poesia.
Se voglio fare la stronza ci riesco bene.  Talmente bene che quasi quasi ci sono. O forse ci sono.  Si, deciso.

Offline Marina Como

Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #20 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 19:27:54 »

In un certo qual senso chi scrive cerca di condividere, e dunque è necessario che egli in qualche modo si adoperi perché il suo linguaggio sia correttamente interpretato, d’altro canto egli non può in ragione di ciò limitare la sua espressività e sarà dunque maggiormente il lettore che dovrà (se ne avrà voglia) dotarsi di quegli strumenti che adeguino le sue conoscenze al protocollo di comunicazione adottato dallo scrivente.
Se così non fosse, se fosse cioè lo scrivente a doversi adattare, ne soffrirebbe la capacità di espressione e la comunicazione si appiattirebbe sull’utilizzo dei pochi fonemi necessari a enunciare un concetto nel modo più primitivo possibile.
Il linguaggio evocativo nella lingua scritta è paragonabile probabilmente alla gestualità con cui si accompagna un discorso parlato, ma di per sé non è sufficiente a sostituire  i concetti filosofici ed astratti che a volte impregnano certi discorsi.



Non so se mi sono capito... ;D

quoto, si, ti sei spiegato bene.
Se voglio fare la stronza ci riesco bene.  Talmente bene che quasi quasi ci sono. O forse ci sono.  Si, deciso.

Offline Amara

Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #21 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 19:36:22 »

Per quanto riguarda il linguaggio evocativo nella lingua scritta, esso è paragonabile probabilmente alla gestualità con cui si accompagna un discorso parlato, ma di per sé non è sufficiente a sostituire  i concetti filosofici ed astratti che a volte impregnano certi discorsi.



Non so se mi sono capito... ;D

..tu si.. io non so.... :D
e se si... quindi.. come fare?
diventa davvero difficile....
se non basta l'evocatività.. chi si esprime in modo meno comprensibile.. dovrebbe semplificare il proprio linguaggio.. e così incorrere nel grave rischio 'luogo comune..figura poetica abusata'.. e mortificare l'istintualità d'espressione... tutto questo parlando ovviamente.. di chi non ha il gene.. del genio.. ;D
Il dubbio è uno dei nomi dell'intelligenza
(J. L. Borges)

GaiaGea

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #22 il: Mercoledì 10 Marzo 2010, 21:49:46 »
Ho letto con piacere quanto sin qui scritto e pur avendo la consapevolezza di non saper sempre esprimere adeguatamente quel che sento vorrei esporre brevemente solo una mia riflessione che spero mi accomunerà con il pensiero di altri. :)
Alla domanda “Cos’è poesia”, come già detto miriadi di volte, ognuno da risposte diverse. Le risposte sono il frutto di un’esperienza di vita, di un sentire personale e di un  linguaggio che si trasforma e nello scrivere trova il suo adagiarsi, nel leggere il suo più o meno appagarsi.
Sarà dopo aver letto le poesie di Tizio , Caio o Sempronio che  ognuno individualmente farà le proprie scelte future, scelte che saranno guidate da esigenze individuali che potrebbero avere molteplici ragioni..
Io posso scegliere di leggere poesie, all’apparenza banali per alcuni, per il semplice fatto che a me trasmettono una sorta di serenità e tranquillità che in quel momento mi necessita. E’ un delitto così grave esprimersi con semplicità o cercare nella semplicità appagamento?
Io non credo… perché siamo fatti così… fondamentalmente siamo dei semplici e quando vogliamo trasmettere qualche cosa di pienamente condivisibile scegliamo di avere un linguaggio che sia comprensibile ai più ma alla fine non è che scegliamo…semplicemente ci esprimiamo per quel che siamo.
Chi usa un linguaggio più ricercato lo usa perché spinto da esigenze personali che lo portano a volersi in qualche modo distinguersi dagli altri.
L’uso di parole che spesso non sono comprensibili ai più, gli permette  di elevarsi (a parole) ad un linguaggio all’apparenza superiore ma che fondamentalmente alla fine non è altro che un linguaggio atto ad attirare l’attenzione su se stesso e non tanto alla condivisione serena di un sentire.
Sono scelte libere e consapevoli, ognuna delle quali avrà in seguito un proprio riscontro.
Scusate… ma questo è solo una mia riflessione che ho cercato di esporre per poter condividere anche il mio pensiero con voi tutti e spero di averlo espresso  nel rispetto di ognuno che alla fine deve sentirsi libero di scrivere come meglio crede, cercando di non ledere la sensibilità altrui.

Tosco32

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #23 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 08:05:33 »
Non so se ancora una volta, sull'onda della immediatezza del mio dire e anche sul ritmo della superficialità del mio pensiero, io vada fuori... tema. Oramai però ci sono abituato ed ho acquisito, per questo mio modo di procedere e d'interpretare, una faccia che si suole chiamare di bronzo.
Il "veleno del linguaggio" io lo ritrovo quando leggo qualche commento alle poesie. Mi ritorna sempre la cinica impressione che almeno il cinquanta per cento dei commenti siano fatti con l'unico scopo di acquistare merito verso il commentato che, a sua volta ricambierà con un suo commento.
Trovo giudizi veramente che fanno cascare le braccia, come ho già detto, commenti che potrebbero andare bene, tanto sono insulsi, generici, improvvisati per un unico fine, banali oltre ogni dire, per ogni manifestazione, per un epitalamio di nozze, per un funerale con fiori mortuari, per un pranzo di nozze con primo di cacciucco alla viareggina, per ricordini della Cresima, per languenti poesie d'amore o per strimpellate allegre in barba al contrario destino... e chi più ne ha più ne metta.
Funziona nella fattispecie quella che io ho chiamato la società GAMA (Gruppi Associati Mutua Assistenza) dove gli autori s'incensano a vicenda. Vedo poesie di una banalità sconcertante, addirittura con una ventina di commenti, tutti di esaltazione, e dove le parole "stupenda" "da serbare" "incredibilmente bella" "grande poeta...o poetessa" si elevano alte verso il cielo, sicuramente in mezzo alle lacrime di pianto di soddisfazione del commentato/a.
Dovrebbe davvero in qualche caso insorgere la Redazione stessa, attentissima invece se in una poesia vi sia nascosta l'ombra di una dedica per toglierla,  ed avere il coraggio invece di cancellare la banalità di certi commenti, magari con una mail indirizzata all'autore che scriva pressappoco così: " Abbiamo tolto il suo commento perché, leggendolo, ci siamo addormentati all'istante, e ciò è contrario alle intenzioni del nostro sito, che esigono che i lettori non si addormentino togliendo loro lo spazio per la lettura delle poesie.”
Sapete che faccio? Mi iscrivo anch'io alla società Gama, preparo anticipatamente una decina di commenti e li ripeto ogni volta per tutte le poesie. Saranno di un tenore tale che, senza tema, li potrò applicare a ciascuna poesia anche senza leggerla, e saranno tipo: "la grandezza di questo poeta si esplica in un sublime dove il sentimento, la classe, lo stile, la fanno da padrone". Frase aulica che va bene per... ogni espressione poetica di qualsiasi argomentazione.
Riceverò, in cambio, una tale caterva di commenti, che mostrerò orgoglioso e soddisfatto a parenti ed amici, e potrò pomposamente dir loro: "Io si che sono un grande poeta! Guardate quanti giudizi positivi ricevo..."

Anche in questo caso dunque, si può forse essere in tema e non fuori, parlando di "veleno del linguaggio". Un veleno che si diffonde nell'aria ed asfissia. E non c'è maschera antigas che possa servire...

Ditemi, come al solito sono stato troppo teatrale ed esagerato?
« Ultima modifica: Giovedì 11 Marzo 2010, 08:11:34 da Lorenzo Crocetti »

masman

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #24 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 10:24:20 »
Per approfondire cosa si intende qui con l’espressione “sistemi rappresentazionali”, tenterò di rispondere a una domanda: in che modo un poesia ci cattura? Entriamo nel tema delle “distinzioni”, partendo da alcune verità banali e note ai più. Se qualcuno mi chiedesse di dare una definizione di “realtà”, potrei rispondere solo con una menzogna: ciò che io definisco e percepisco come realtà è distorto dai miei filtri. Non è questo il luogo per definire quali siano i filtri e come operino; richiederebbe troppo tempo. Ci basti sapere, per il momento, che il primo filtro attraverso cui passiamo al vaglio gli input che riceviamo dal mondo esterno, è la nostra esperienza, o meglio, le meta-esperienze che da essa traiamo e che rielaboriamo, trasformandole in generalizzazioni.
Quando comunichiamo attraverso il linguaggio, operiamo una selezione dei predicati e utilizziamo quelli che crediamo essere la scelta migliore per trasferire al ricevente ciò che intendiamo. In realtà, i filtri esperienziali (ma non solo) si riflettono sul nostro output verbale e descrivono solo in parte ciò che i linguisti chiamano “struttura profonda”. Va da sé che il linguaggio, in quanto “struttura superficiale”, è solo un modello del nostro modello del mondo (linguisti e terapeuti avranno già drizzato le orecchie e nella loro mente sarà sicuramente apparsa la parola “Metamodello”). Il poeta deve avere totale e assoluta consapevolezza di questo concetto, poiché è da questa stessa consapevolezza che deriva la capacità e la qualità d’uso di tutti gli strumenti necessari per fare poesia. Tornando alla domanda (in che modo una poesia ci cattura?), si può allora trarre la conclusione che la prima cosa che ci cattura è la consapevolezza del poeta di essere tale. Non esistono poeti inconsapevoli.
Il Conte, con disarmante semplicità e acutezza, pone il tema delle distinzioni: “Il problema sorge quando “mela” è un concetto astruso, in quel momento il protocollo di comunicazione si interrompe ed il dialogo diventa incomprensibile; lì ci sono due possibili vie d’uscita: o si fornisce il concetto di mela all’interlocutore o cade la comunicazione”.
Questa è il fondamento su cui si basa ogni comunicazione logica. Una parola sconosciuta rende la comunicazione astrusa. Ed è proprio di fronte a una parola sconosciuta che, subdolamente, i nostri filtri si mettono in moto: esperiamo l’astrusità davanti alla quale ci troviamo a seconda delle opzioni di scelta che abbiamo: possiamo dirci: “Bene, una parola nuova, voglio conoscerne il significato” e accrescere così la nostra mappa; oppure possiamo dirci: “Ecco, il solito intellettuale che cerca di abbagliarmi con parole ricercate”, e tenerci la nostra mappa impoverita. In entrambi, i casi, filtriamo quel tipo di esperienza a seconda della nostra convinzione su cosa sia o non sia una poesia. Nel secondo caso, ciò che diciamo a noi stessi diventa un veleno che limita il nostro potenziale di crescita come artisti e come esseri umani.

Offline Saldan

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #25 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 11:15:23 »
Ognuno ha il proprio modo di scrivere, e soprattutto ognuno ha finalità e aspettative diverse per ogni poesia pubblicata, c'è chi scrive perchè vuole essere apprezzato e ricevere commenti, chi per sfogarsi, chi per semplice hobby ecc... il punto semmai è un altro: perchè vogliamo che gli altri leggano le nostre poesie?
...la mia culla è meraviglia esplosa, non ti dondola ma avvolge e ammanta.
La mia culla è poesia ansiosa di svelarmi quello che ti incanta...      

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Offline Amara

Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #26 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 12:59:09 »
... esperiamo l’astrusità davanti alla quale ci troviamo a seconda delle opzioni di scelta che abbiamo: possiamo dirci: “Bene, una parola nuova, voglio conoscerne il significato” e accrescere così la nostra mappa; oppure possiamo dirci: “Ecco, il solito intellettuale che cerca di abbagliarmi con parole ricercate”, e tenerci la nostra mappa impoverita. In entrambi, i casi, filtriamo quel tipo di esperienza a seconda della nostra convinzione su cosa sia o non sia una poesia. Nel secondo caso, ciò che diciamo a noi stessi diventa un veleno che limita il nostro potenziale di crescita come artisti e come esseri umani.


..si.. ed è in questo spirito che credo ci si dovrebbe avvcinare.. non soltanto alla poesia...ma ad ogni testo.. di qualsiasi natura.... anche a un topic.. ;D
..per quanto riguarda la poesia.. a mio parere l'uso di terminologie.. diciamo.. dotte.. deve però suonare sincero e scorrevole.. e non avvertirlo come una ricercata forzatura... nato quindi  con nauralezza da un'effettivo bagaglio culturale di chi scrive.. e non da una forzata ricerca di esso...
..diversa, credo sia..un'operazione di ricerca e sperimentazione sul linguaggio.... che avrebbe in sè.. altri evidenti intenti...
Il dubbio è uno dei nomi dell'intelligenza
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aureliastroz

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #27 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 15:57:48 »
...
se non basta l'evocatività.. chi si esprime in modo meno comprensibile.. dovrebbe semplificare il proprio linguaggio.. e così incorrere nel grave rischio 'luogo comune..figura poetica abusata'.. e mortificare l'istintualità d'espressione...

No Amara, chi si esprime non deve semplificare il proprio linguaggio, perché come giustamente afferma Massimiliano Manocchia:
 “è proprio di fronte a una parola sconosciuta che, subdolamente, i nostri filtri si mettono in moto: esperiamo l’astrusità davanti alla quale ci troviamo a seconda delle opzioni di scelta che abbiamo: possiamo dirci: “Bene, una parola nuova, voglio conoscerne il significato” e accrescere così la nostra mappa; oppure possiamo dirci: “Ecco, il solito intellettuale che cerca di abbagliarmi con parole ricercate”, e tenerci la nostra mappa impoverita.”

...Chi usa un linguaggio più ricercato lo usa perché spinto da esigenze personali che lo portano a volersi in qualche modo distinguersi dagli altri.
L’uso di parole che spesso non sono comprensibili ai più, gli permette  di elevarsi (a parole) ad un linguaggio all’apparenza superiore ma che fondamentalmente alla fine non è altro che un linguaggio atto ad attirare l’attenzione su se stesso e non tanto alla condivisione serena di un sentire.

Tiziana permettimi di dissentire.
Intanto bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato del termine “ricercato”. Per me la ricercatezza di un termine o del linguaggio in generale (poetico in questo caso), potrebbe essere rappresentato dall’esigenza di un utilizzo di una struttura o di una tecnica poetica che non siano necessariamente di difficile comprensione, ma che diano l’impronta personale al testo che mi accingo a scrivere.  L’utilizzo del linguaggio che tu definisci “ricercato” è semplicemente dettato da un’esigenza espressiva che porta a semplificare i concetti attraverso la ricercatezza non dei termini, ma del linguaggio in generale .
Non mi riferisco a coloro che sfogliano il vocabolario alla ricerca di termini desueti e il più possibile d’effetto, quanto alla volontà di descrivere situazioni ordinarie facendo ricorso a terminologie non ossidate.
Ti assicuro che in questo non c’è alcuna spinta autoerotica, e nemmeno la necessità di primeggiare.
Del resto la premessa nei miei post precedenti parla chiaro: si scrive per coloro che sono in grado di capire e per coloro che hanno voglia di capire.


…c'è chi scrive perché vuole essere apprezzato e ricevere commenti, chi per sfogarsi, chi per semplice hobby ecc... il punto semmai è un altro: perché vogliamo che gli altri leggano le nostre poesie?

Direi che questa è la risposta più semplice: si scrive perché si ha voglia che qualcuno legga sperando che sulla stessa lunghezza d’onda ci sia qualche altra trasmissione.

...per quanto riguarda la poesia.. a mio parere l'uso di terminologie.. diciamo.. dotte.. deve però suonare sincero e scorrevole.. e non avvertirlo come una ricercata forzatura... nato quindi  con naturalezza da un effettivo bagaglio culturale di chi scrive.. e non da una forzata ricerca di esso...


Perfetto!
« Ultima modifica: Giovedì 11 Marzo 2010, 16:00:03 da Il Conte »

Offline Stefano Toschi

Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #28 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 15:59:47 »
Il tema è interessante (come sempre quelli proposti da Massimiliano). Butto là qualche riflessione da non esperto. :)
Il linguaggio già determina la nostra percezione e comprensione del mondo.
Sarebbe possibile la riflessione senza il linguaggio? Fino a che punto saremmo capaci di cogliere sfumature della realtà che non abbiano equivalente nel linguaggio?
Il linguaggio è il materiale con il quale è costruita la nostra rappresentazione del mondo.
Per questo la parola ha avuto sin dal suo inizio una funzione magica; essa è capace, a sua volta, di evocare la cosa.
A questa funzione fa riferimento lo scrittore, ed in modo particolare il poeta; egli evoca un mondo attraverso il linguaggio.
Tutto sommato non sono sicuro che il veleno che si effonde nella comunicazione attraverso il linguaggio sia maggiore di quello che "avvelena" il nostro rapporto col mondo.
Certo il mondo evocato dal poeta è spesso volutamente sfumato, indefinito... (io credo: proprio perché tenta di dire l'indicibile).
Ma una descrizione precisa, ben normata, può ottenere effetti di esattezza superiori alla percezione diretta delle cose.
La carente conoscenza del linguaggio in cui avviene la comunicazione da parte di uno o più dei comunicanti è un tipo di veleno di tutt'altra natura, che non è imputabile al linguaggio in sé.
"Ogni certezza è nel sogno" (E. Poe)

Offline Barbara Golini

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Re: Il veleno del linguaggio
« Risposta #29 il: Giovedì 11 Marzo 2010, 21:26:22 »
leggo e rileggo i post e debbo dire che convengo con quanto detto da Massimiliano e da Conte sull'uso del linguaggio più ricercato/colto/elaborato o quant'altro e convengo e sottoscrivo che la ricerca d'esso non è in realtà per il poeta un voler mostrare, ma un atto quasi autoerotico di stimolazione del proprio intelletto e del compiacersi nel farlo. Questo accade (ad esempio a me) anche quando si leggono cose straordinarie, che possono essere trovate anche al di là del gruppo che si sceglie perché ci ritroviamo inesso come era statoa nche dettto in precedenza ( anche se io continuo a ribadire che per me non vale in quanto trovo sempre molto noiose le persone che la pensano come me e sono sempre alla ricerca di altro dal mio, forse per la mia irrequietezza e incostanza non so bene). Purtuttavia, è da quando ho letto l'intervento di Conte che rimetteva i puntini sulle i, che mi torna in mente sempre e solo una persona la cui storia mi ha sempre impressionato molto quella di Walter Benjamin un ebreo tedesco di cui penso conosciate tu`tti la storia che non è stato capito che dopo tantissimi anni e la cui vita è stata una tragedia alla luce della fuga dal nazismo e di un altro molto personaggio molto meno conoscito un certo Rudolf Kaufman (BAci di Carta, ve ne consiglio la lettura), perché questi due uomini? Beh! perché il primo non è stato compreso in qunato il veleno nel suo linguaggio era l'essere andato troppo oltre la media degli intellettuali che non gli diedero il dottorato e lo obbligarono a ritirare  la sua tesi che oggi viene considerata la base del pensiero moderno, e l'altro perché il veleno nel suo linguaggio era quello di non essere stato, a lui la vita non ha dato nemmeno la possibilità di esserè. Non chiedetemi perché vi pongo questi  miei pensieri. Se le associazioni sono rizomi impazzitri e i poeti dei folli storditi, beh! allora questo è quanto m'è venuto e anche se conte ci terrà a rimette le scose in ordine non potrà impedirmi di essere libera nell'associare giusto?  ;D ::)