E’ sempre la notte lo sfondo delle poesie introspettive o intimistiche (come mi piace definirle). E’ su questo sfondo a toni cupi, nella sua estrema capacità di dilatare le armonie inespresse, che si sviluppano tragitti insoliti, vagabondaggi nei rifugi della mente. Si instaura uno stato di grazia alla rovescia, una impellente necessità di trasfigurare il possibile per renderlo più verosimilmente inarrivabile; si perpetra uno strappo nelle pieghe spazio-temporali che dilata le paure ed amplifica le ansie covate, i timori accantonati alla luce del giorno.
Ci si scopre più fragili, più vulnerabili, ed è in quei lunghi spazi di presa di distanza della ragione che il pessimismo tenta di sopravvenire.
La Grippo sovverte questi canoni, si pone in maniera più meditativa, ha una visione della notte come rifugio, come riparo dalla follia del mondo.
Mi piace abbastanza questa poesia della Grippo, per la semplicità e nello stesso tempo per la forza espressiva che emana dalla anafora del bisogno, della necessità.
Già! Il bisogno! La necessità di spaziare al di fuori di sé stessi per ritrovare i propri pensieri la propria esistenza. E’ sempre stata la necessità la forza trainante del mondo, da quella di nutrirsi a quella di comunicare passando per quella (meno nobile) di imporre il proprio potere sugli altri. La necessità è nello spirito di ogni azione umana, di ogni pensiero.
Ed è proprio il bisogno il filo conduttore di questa poesia, con i suoi versi senza pause, senza spazi di respiro, senza tragitti scontati né mete pindariche agognate.
L’autrice è sola con le sue riflessioni, le sue inquietudini, il suo appartenere ad un mondo, ad una realtà di difficile interpretazione e le necessità (il bisogno appunto) che scaturiscono dal suo vissuto non sono poi così lontane dai bisogni che ciascuno di noi rivela più o meno consciamente nel corso della propria vita: rimanere soli con i propri sogni, far sì che questi possano almeno per una notte animarsi di vita propria, che i nostri pensieri, le nostre idee possano seguire il loro corso e che il nostro rapporto con il mondo possa almeno una volta essere inghiottito dalla notte “
per sparire nel suo buio”.
Tecnicamente vorrei suggerire di effettuare la sostituzione
del sesto verso che scade un po’ di tono con quel “
volare al di là” , poi ci sono il tredicesimo e quattordicesimo verso:
Ho bisogno di andare,
ho bisogno della nottedue anafore consecutive? Un po’ troppo davvero.
Passabile il resto tranne la chiusa che cambierei completamente per il messaggio che ne scaturisce (sembra tu sia la detentrice della verità e che voglia lasciarla ai posteri… un po’ troppo presuntuoso
) e ne altera l’armonia d’insieme.
P.S. Un appunto al commento di Maurizio: è una cosa bruttissima numerare i versi di una poesia, dà l’impressione di un elenco, ne sminuisce il valore e la porta alla stessa stregua di un corpo sul tavolo di un anatomopatologo.