Due poesie di Umberto Santino
(in memoria di Peppino Impastato)
Sarai meno solo
Avremmo potuto pensare
il silenzio ritorna
e noi stretti intorno ai frammenti
del tuo corpo
schiacciati da troppe morti
prima che dagli altri
vinti da noi stessi
(dov’erano i compagni più amati
di cui più ti fidavi?
Come nei presepi dell’infanzia
le rocce si sono rivelate
sugheri dipinti
leggere come il fumo
e più delle parole rubate
da chi ti vuole suicida
la tua morte ci giudica
la tua solitudine ci misura)
gridare per l’ultima volta
per sentirci meno soli
per darci coraggio.
Ma c’erano i vecchi
che stringevano la mano
dopo il comizio,
c’erano le mani che chiedevano
il volantino,
c’erano le porte aperte
dopo la prima paura
(Mafiopoli prendeva respiro)
c’era il tuo nome
segnato sulla scheda
per rispondere
a chi l’aveva cancellato
sui manifesti:
piccole crepe, certo,
in un muro che restava muro.
E c’era l’ira dei cortei
anche se i gesti erano
troppo piccoli
(un sasso scagliato
contro la bottega del potere)
e le parole troppo grandi
(come possiamo dire
nulla resterà impunito
se non possiamo neppure impedire
che il tuo volto distrutto
venga infangato sui giornali?).
La tua vendetta
sarà allargare la breccia
spalancare le porte.
Così sarai meno solo
dietro il muro dei morti.
(1978)
***
La matri di Pippinu
Chistu unn’è me figghiu.
Chisti un su li so manu
chista unn’è la so facci.
Sti quattro pizzudda di carni
un li fici iu.
Me fighhiu era la vuci
chi gridava ’nta chiazza
eru lu rasolu ammulatu
di lo so paroli
era la rabbia
era l’amuri
chi vulia nasciri
chi vulia crisciri.
Chistu era me figghiu
quannu era vivu,
quannu luttava cu tutti:
mafiusi, fascisti,
omini di panza
ca un vannu mancu un suordu
patri senza figghi
lupi senza pietà.
Parru cu iddu vivu
un sacciu parrari
cu li morti.
L’aspettu iornu e notti,
ora si grapi la porta
trasi, m’abbrazza,
lu chiamu, è nna so stanza
chi studìa, ora nesci,
ora torna, la facci
niura come la notti,
ma si ridi è lu suli
chi spunta pi la prima vota,
lu suli picciriddu.
Chistu unn’è me figghiu.
Stu tabbutu chinu
di pizzudda di carni
unn’è di Pippinu.
Cca dintra ci sunnu
tutti li figghi
chi un puottiru nasciri
di n’autra Sicilia
(1979)
*
La madre di Peppino
Questo non è mio figlio.
Queste non sono le sue mani
questo non è il suo volto.
Questi brandelli di carne
non li ho fatti io.
Mio figlio era la voce
che gridava nella piazza
era il rasoio affilato
delle sue parole
era la rabbia
era l’amore
che voleva nascere
che voleva crescere.
Questo era mio figlio
quand’era vivo,
quando lottava contro tutti:
mafiosi, fascisti,
uomini di panza
che non valgono neppure un soldo
padri senza figli
lupi senza pietà.
Parlo con lui vivo
non so parlare
con i morti.
L’aspetto giorno e notte,
ora si apre la porta
entra, mi abbraccia,
lo chiamo, è nella sua stanza
a studiare, ora esce,
ora torna, il viso
buio come la notte,
ma se ride è il sole
che spunta per la prima volta,
il sole bambino.
Questo non è mio figlio.
Questa bara piena
di brandelli di carne
non è di Peppino.
Qui dentro ci sono
tutti i figli
non nati
di un’altra Sicilia.