Ringrazio infinitamente Stefano, Marina e Ausilia per le loro accurate esegesi.
Passo al tentativo di spiegare il contenuto di questo mio scritto; lo chiamo tentativo perché non mi sembra mai facile (parlo ovviamente per me) razionalizzare ciò che ho "rappresentato".
Sulla forma c'è poco da dire se non ammirare l'analisi di Stefano. Aggiungo solo che le allitterazioni aspre, le rime "ossessive" e la struttura a cerchio sono fenomeni automatici, non decisi a livello cosciente. Derivano dalla mia difficoltà emotiva nel trattare temi che mi coinvolgono. Sicuramente c'è qui qualcosa di claustrofobico, è dovuto al mio "arrovellarmi". Tuttavia nella strofa finale, anche se suona come risposta alla domanda iniziale, in realtà c'è un concetto diverso e più assertivo dell'ipotesi iniziale.
Vado con il contenuto.
I.
Cos'è la mancanza.
E' sciogliere il filo
dalla speranza?
Ché se lo fai
neanche si crede al nodo,
ormai.
La mancanza (di qualcuno, di se stessi o del "senso") si avverte quando non si coltiva speranza (il filo che ci lega alla vita) per il ritrovamento di quello che, appunto, manca. Così, si perde anche la fiducia nell'attaccamento alla vita (il nodo, che come ha detto Stefano è collegato concettualmente al filo).
II.
Nel conservare intero
tutto il sè, forse
alla fine
un te.
Nel mantenersi fedeli a se stessi, invece, quella speranza di trovare un completamento resta intatta. Questa l'unica via: non tradirsi. Non condivido quindi la lettura pessimistica di questo passaggio data da Ausilia, perché è proprio qui che la mia speranza residua fa capolino. In questo passaggio Marina è stata acutissima.
III.
E a un tratto la luna mi abbaglia,
faro che segna le strade
nell'alta sterpaglia.
Avvisaglia?
Strofa "impressionistica" che trae ispirazione dalla natura. L'esegesi datane da Stefano è perfetta: la luna è una luce forte ma non solare, quindi simboleggia la difficoltà della conoscenza. Eppure è incoraggiante, mi illumina il percorso "arido", è un'avvisaglia della verità. La riflessione forse mi porterà a capire da cosa dipende quel mio senso di incompiutezza.
IV.
Dispersa apparenza
e riemersa,
questa è mancanza.
Qui ho usato la congiunzione "e" con coscienza: un'apparenza dispersa E riemersa. Il collegamento con il titolo c'è, ha visto giusto Stefano. Come il titolo (il neutro plurale di "disiectum") indica cose sparse, senza un apparente filo logico; così qui indica qualcosa che "è sembrato" (apparenza) - cioè le esperienze finite, disilluse, nella vita di ognuno di noi o almeno di molti di noi - ma nello stesso momento si è frantumato (o abbattuto, come dice Stefano), è andato perduto; però è stato qualcosa di talmente forte - per un attimo ha dato senso alla vita - che riemerge inesorabilmente davanti a noi ( a me). Ed è questa la vera mancanza, il disagio doloroso: sapere che qualcosa - poi rivelatasi inconsistente - è stata l'unica ad aver dato senso e che quindi non tornerà mai
realmente. Da questo punto di vista mi associo a quel "senso di sfiducia" rilevato da Ausilia, ma non in me bensì in ciò che la mia vita è stata finora anche indipendentemente da me.
Almeno qui, non mi interessava sostenere alcuna morte dell'ideologia e nemmeno - come hanno detto Stefano e Marina - il senso di straniamento e vacuità dato dalla società contemporanea; qui parlo di me e del senso della mia vita, delle riflessioni che io faccio sul passato e sul presente. Se poi sia condivisibile (e soprattutto comprensibile nella lettura) lascio decidere a tutti quelli che sono passati e passeranno di qui, gettando un occhio