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Ho recentemente letto un libro dello psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, "Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh" , ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2014. Intrattenendosi sull'ultima fase pittorica del grande artista olandese, quella "giapponese" , in cui Van Gogh, sbagliando, pensava di raggiungere la salvezza psichica illudendosi di dipingere come un giapponese (cfr. l' "Autoritratto" del 1888) , Recalcati accenna anche agli haiku. Egli scrive : "Il segreto dell'arte giapponese non consiste solo nell'aver scoperto la luce e il colore, ma nell'aver ridotto il mondo a un filo d'erba che però, a sua volta, contiene il mondo. Questa riduzione è l'esito di un movimento di semplificazione, di riduzione, come quello che avviene nei confronti della scrittura dei cosiddetti aiku [ sic! ] , brevi poemi ermetici che in poche frasi enigmatiche condensano l'intero processo della poesia " (pag. 135) . Ma per far ciò, "per raggiungere questa purezza del tratto, i giapponesi insegnano che sono necessari pazienza, lavoro e disciplina. Non c'è dunque alcun culto del primitivo, del buon selvaggio, dell'ingenuità perché la purezza del tratto è il frutto di un'educazione lenta, di una formazione severa. Per raggiungere la semplicità del respiro, dell'atto senza pensiero, del tratto privo di ornamento, occorre una disciplina rigorosa, quasi una nuova ascesi" (pag. 137) .