Conosco troppo male l'inglese per permettermi di giudicare quale delle due versioni sia preferibile.
Sottolineo soltanto che una poesia tradotta, come una prosa tradotta (soprattutto se dallo stesso autore) , sono comunque cose diverse dall'originale.
Quando un autore sente il bisogno di tradurre se stesso (a meno che non lo faccia esclusivamente per far capire il contenuto a chi non conosce una certa lingua) , lo fa per esigenze psicologiche intrinseche, per una specie di sdoppiamento della personalità, e ne ricava sempre qualcosa di diverso.
Gli esempi letterari più famosi del Novecento sono forse quelli datici da Samuel Beckett, che traduceva se stesso dall'inglese al francese (o viceversa) .
George Steiner, grandissimo critico letterario, così scrive a proposito di Beckett (in "Dopo Babele. Il linguaggio e la traduzione" , ed. Sansoni, 1984, pag. 466) : "Il trasferimento è impeccabile [si tratta di un brano di "Finale di partita" ] (...) Eppure le differenze di cadenza e di tono sono notevoli. L'inglese scende e si smorza tramite i suoni lunghi della 'o' ; il francese procede a spirale fino a una nota nervosa conclusiva. Si provi a disporre i due brani l'uno accanto all'altro, e ne risulterà un effetto singolare. Rimane il loro squallore claustrale, ma la distanza che li separa è sufficiente a creare un senso di liberazione, di alternativa quasi irresponsabile. 'That rising corn' e 'ce blé qui lève' (quel grano che spunta) parlano di mondi abbastanza diversi da consentire alla mente spazio e stupore assieme. "