Spesso, quando parlo o quando ascolto le persone parlare, mi chiedo quanto siamo consapevoli del nostro linguaggio e della sua funzione nella realtà. In quanto esseri umani che utilizzano un sistema di comunicazione codificato foneticamente e simbolicamente, siamo soggetti a filtri e vincoli che rendono parziale il nostro percepire la realtà, e quindi la realtà stessa; ciò che rappresentiamo col linguaggio non è altro che la miglior approssimazione possibile del risultato del nostro esperire. I filtri e i vincoli svolgono tuttavia un funzione fondamentale, che è quella di preservare il sistema mente-corpo da una mole di input sensoriali - che rielaboriamo poi sotto forma di informazioni - talmente vasta che senza di essi saremmo sopraffatti fino alla paralisi.
Il linguaggio è il solo sistema che l’essere umano possiede per rappresentare, a se stesso e agli altri, il “mondo” o, più precisamente, il proprio “modello del mondo”, e diventa quindi esperienza riguardo all’esperienza, vale a dire descrizione, valutazione ed espressione di ciò che sperimentiamo. Poiché non abbiamo consapevolezza di come, nell’atto del parlare, le parole sorgano alle nostre labbra, possiamo affermare che il linguaggio e il processo di apprendimento del linguaggio sono per buona parte un’abilità inconscia.
Ciò non è più vero (o è vero solo in parte) quando scriviamo.
Qui la nostra consapevolezza si “accende”. È come se per magia il sistema che utilizziamo per codificare la realtà si espandesse. Nell’intimo raccoglimento, il tempo sembra arrestarsi e noi diveniamo consci di una realtà più estesa di quella che viviamo parlando. Abbandoniamo la piccola realtà condivisa con gli altri esseri umani ed entriamo nell’immensa realtà interiore. Si arresta il bombardamento sensoriale proveniente dall’esterno e ci troviamo in una terra sterminata di silenzio (di quiete o tormento che sia) che acuisce ancor più i nostri sensi. Se scriviamo di una fragola, siamo in grado di percepirne il sapore, il profumo, vederne il rosso acceso tempestato di verde, sentirne la consistenza. In questo silenzio, riproduciamo la nostra esperienza esteriore e la ri-rappresentiamo a noi stessi sotto forma di parole scritte. Allora scandagliamo la nostra mente alla ricerca del simbolo (parola) più adatto ad esprimere il nostro (ri)sentire. L’artista è colui che ridona al mondo la sua stessa esperienza con parole che gliela fanno percepire in modo diverso. Il vero artista cambia l’esperienza del lettore.
Credo di aver già detto altrove che Wilde disse: “Il poeta che chiama vanga una vanga, dovrebbe essere costretto ad usarla”.
Mi si contesterà che Realismo, Neo-Realismo e mettiamoci pure il Post-Realismo, hanno prodotto fior di artisti che ora siedono nell’Olimpo. È vero, ma se siedono nell’Olimpo è più per un atto dovuto che per reale merito. Siedono là per la loro grandezza “umana”, non per la loro grandezza “artistica”. Costoro non hanno cambiato la loro epoca: ne hanno fatto la cronaca. Non conosco un solo uomo cambiato dalle centinaia di poesie di Pasolini, ma ne conosco centinaia cambiati da una sola poesia di Baudelaire.
L’arte non può, non deve essere innocua; essa è, per definizione, finzione, artificio. E come potrebbe essere altrimenti se è vero, come è vero, che il linguaggio (riporto l’affermazione fatta più sopra) è la miglior approssimazione possibile del risultato del nostro esperire? L’uso della parola, in qualunque contesto, è di per sé null’altro che una “rappresentazione”, un modo artificioso di descrivere le informazioni sensoriali. È importante sottolineare qui che noi esseri umani non abbiamo altro mezzo per esperire la realtà se non i nostri cinque sensi. Sono queste le “porte della percezione” di cui parlava Aldous Huxley. Ma, come il linguaggio stesso, abbiamo commesso il tragico errore di darli per scontati e quindi trascurarli. Il poeta non è più sensibile perché ha un cuore diverso dagli altri uomini o un misterioso sesto senso che solo a pochi viene donato, né perché sente cose che altri non sentono; è più sensibile semplicemente perché utilizza tutti i sensi e ne amplifica il grado di utilizzo: li affila come lame e li rende ricettivi al massimo grado e rielabora l’informazione, attraverso il linguaggio, in modo nuovo, inedito, originale.