Come da le stoppie metute, tosto
vita può ricever un novo foco,
sì in Apollo l’ardor del cor renova
la vista de la bella ninfa, lungi
un rivo, sorseggiante spensierata.
I capei verdeggianti contempla,
ammira le sinuose membra a l’aria:
mani decanta e piedi e labbra e occhi
e l’ascose parti dal velo immagina.
Ma ella, simil a l’alito di vento,
fugge: “Chi fuggi, tu non riconosci!
Son Apollo, Giove è il padre mio,
passato, presente svelo e futuro,
il mio bel canto a la cetra accordo,
io son medico e malati guarisco,
son terribil cacciator ed arciere,
su vaste terre il dominio estendo.
Ma non son tuo nemico. Io t’amo!
Rallenta: corri su vie impervie!
Sì innanzi al feroce lupo l’agnella,
ad Achille il Troiano, a l’aquila
il bianco coniglio, sì tutte innanzi
al nemico: ma per amor t’inseguo!
Non sia mai che la mia rincorsa,
frutto d’amor, dolore ti procuri!
Ed ella fugge, sì terrorizzata,
e il vento le membra le discopre
e i capei le scompiglia la brezza.
Ma lui, su l’ali d’amore, alacre
corre e quasi l’afferra, ansimandole
sul collo, e quindi di novo ella fugge.
Oramai stremata, a le rive
de lo fiume giunge e d’esser dissolta
prega intensamente. Ancor ella prega,
quand’ecco che un torpore penetrante
la pervade tutta e le membra muta:
il petto in sottili lignee fibre,
i capelli in sì verdissime fronde,
i piedi sì lesti in dure radici,
il volto in una chioma svanisce:
d’un tempo solo lo splendor conserva.
E Apollo l’abbraccia e la bacia:
Dafne è ora la sua pianta sacra,
sempre la sua cetra orna, i capei
e la faretra; simbolo d’onore
e di vittoria pei Latini.
Giovane la chioma intonsa d’Apollo,
sempre sì verdi le foglie di Dafne,
di lì innanzi denominata alloro.
Tacque Febo, i rami scosse la pianta,
quasi che col proprio capo assentisse.