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Discussioni in corso => Discussioni fra autori => Topic aperto da: masman - Lunedì 8 Marzo 2010, 10:13:27
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Uno dei più ingenui e comuni errori che si rischia di commettere nella versificazione è quello di infarcire il componimento di cosiddette immagini poetiche, trascurando il suono dei fonemi e l’armonia. Il tentativo di riprodurre, attraverso un sistema rappresentazionale puramente auditivo (il linguaggio), una visione o un immagine, sfocia spesso in banalità, clichés e luoghi comuni. Se vi siete cimentati nell’esercizio di descrivere a qualcuno un’immagine, sapete bene che non è per niente facile e, soprattutto, non v’è la certezza che il ricevente, attraverso le vostre parole, si crei mentalmente l’esatta immagine che state tentando di descrivere. Il motivo di questa distonia comunicativa è semplice: ogni parola, per ognuno di noi, richiama un’esperienza soggettiva diversa. La parola ‘mela’ non identifica l’oggetto mela, bensì la nostra esperienza della mela, vale a dire il modo in cui noi, mentalmente, ci ri-rappresentiamo la mela. Ora, sono assolutamente certo che alcuni di voi stanno pensando a una mela rossa, altri a una mela gialla, altri ancora a una mela verde. Nessuno ha pensato a una mela blu. Questo perché, nella nostra esperienza, non esistono mele blu. Allo stesso modo, quando in una poesia leggiamo la parola ‘tramonto’, proiettiamo su quella parola la nostra esperienza. Si può affermare, quindi, che le parole fungono da innesco alle nostre rappresentazioni visive interiori. Il poeta deve tener conto di questo: ciò che ci rappresentiamo attraverso la parola passa attraverso un filtro: la nostra esperienza soggettiva. Questa è anche la ragione per cui, spesso, l’interpretazione di un testo poetico può variare profondamente da lettore a lettore. E se è indubbio che colui che scrive, lo fa da un punto di vista soggettivo - vale a dire, rappresenta a se stesso la sua esperienza attraverso il linguaggio (Bandler e Grinder, “The Structure Of Magic, Vol. I”, 1976) - è altrettanto indubbio che chi legge prende quell’esperienza e, a sua volta, proietta su di essa il suo modello.
Le parole NON SONO le cose che rappresentano. Sono soltanto simboli: sonori quando verbalizziamo, grafici quando scriviamo. Se ci dimentichiamo di questo, il linguaggio diventa un veleno che paralizza la creatività e, in taluni casi, la vita stessa. Ma se lo teniamo sempre a mente, allora può diventare il nettare più dolce, la linfa creativa che ci permette di crescere come esseri umani e come artisti.
Il poeta deve necessariamente operare su un doppio livello di comunicazione. A un primo livello, rappresenta a se stesso, attraverso le parole, il proprio modello del mondo; a un secondo livello, descrive al lettore il proprio modello, e lo fa operando nella sfera della condivisione del significato. Eppure è proprio all’interno di questa che nascono e si autoalimentano i due nemici fatali della poesia: il luogo comune e l’immagine poetica. Paradossalmente, egli più tenta di essere poetico e più diviene banale e impoetico.
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bella---grazie---ci rifletterò...davvero grazie
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Wittgenstein e Husserl? ;D
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Quindi quale sarebbe la soluzione di questo insanabile dualismo?
Eh eh...Non ci puoi lasciare così penzolanti come impiccati a una corda saponata, nel vuoto che ci attrae e ci respinge come l'indovinello della sfinge (esempio di stra-immagine soggettiva/oggettiva stra-ridondante ;) )
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..certo che non essere poeta... mi solleva parecchio.. ;D
dopo aver letto avrei paura a scrivere......
credo.. che anche un luogo comune possa essere trattato poeticamente.. e che una figura poetica possa esserlo davvero... quando nascano dalle dita di chi ha in sè la poesia...
ma penso tu abbia davvero ragione..
nella mani di noi dilettanti possono scaturire parole banali ed a buon peso...
oppure qualcosa di inintellegibile.. anche per il 'sentire'...
attendo quindi di sapere quali difese frapporre a queste tentazioni.....
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quel che scrivi mi fu chiaro fin dalla prima poesia che lessi in pubblico e da quello che le persone ne avevano ricavato e così accadde ancora con una mia poesia che fu messa in scena.
"Eppure è proprio all’interno di questa che nascono e si autoalimentano i due nemici fatali della poesia: il luogo comune e l’immagine poetica. Paradossalmente, egli più tenta di essere poetico e più diviene banale e impoetico.",
anche la definizione del luogo comune e dell'immagine poetica sono relative a chi le definisce e/o le rappresenta, quel che per qualcuno può rappresentare un luogo comune può non necessariamnete e non deve eserlo per altri, soprattutto per chi vive in un mondo fatto di diverse culture e non monoculturale.
Detto questo ci tengo a ribadire che siamo letti e apprezzati da chi comunque comprende quello che scriviamo.
Io amo spaziare nella lettura delle poesie tra autori molto diversi non solo da me ma anche tra loro...non devo necessariamente sapere scrivere come Majakowskij per apprezzare comunque le doti di un poeta futurista e questo vedo che spesso manca nel sito, ci si legge tra persone che la pensano nello stesso modo per me questo ha rappresentato sempre una noia nella mia vita forse perquetso sono sempre stata amante delle culture diversde dalla mia.
Per concludere, non vorrei che questa consapevolezza del doppio compito di un poeta, portasse lo stesso a perdere la vera ragione dello scrivere. In più mi unisco ad Amara...con tutte 'ste responsabilità quasi quasi chiudo bocca mani e orecchie e non dico né scrivo più nulla nella mia infinita insignifitudine ;-)
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.....acc.....forse ho divagato troppo.....
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(...)
Per concludere, non vorrei che questa consapevolezza del doppio compito di un poeta, portasse lo stesso a perdere la vera ragione dello scrivere. In più mi unisco ad Amara...con tutte 'ste responsabilità quasi quasi chiudo bocca mani e orecchie e non dico né scrivo più nulla nella mia infinita insignifitudine ;-)
Peccato eri partita così bene... poi ti sei persa nella storia del multiculturale che è come cercare i pinguini all'equatore ;D ;)
Massimiliano, anche io come Clodia e Amara ho avuto l'impressione che ci sarà un seguito quindi attendo...
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Ottimo valore aggiunto Conte, da prendere in considerazione. Sottolineo pero' il fatto, che pur avendo sempre prospettiva di un margine di miglioramento, la poesia che scriviamo è da neofiti. Ci divertiamo a scrivere , a volte riesce bene , altre volte le immagini sono uffuscate dal nostro vissuto, ma sempre una nostra creazione, e magari devono nascere in quel modo. Sdrammatizzerei dicendo che ognuno scrive come sente....saranno altri ad esprimere, eventualemnte giudizio. Sta poi a noi , prendere il considerazione le opinioni come "opinioni" e non come giudizi definitivi .
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È ormai risaputo, detto e ridetto, fino ad esser diventato un luogo comune: noi esseri umani non interagiamo direttamente con la realtà, ma attraverso la nostra mappa della realtà. E attraverso i nostri filtri. In modo non dissimile, il poeta, dandoci una sua rappresentazione della realtà, ci fornisce contestualmente i filtri attraverso cui egli ri-rappresenta a se stesso la realtà che osserva. Ci fornisce, per usare un linguaggio più consono, la sua mappa del mondo, e lo fa attraverso un modello: il modello linguistico, che è, per definizione, un modello auditivo. Se davvero vogliamo comprendere quelle che il poeta ci dice, se davvero vogliamo penetrare nella sua mappa del mondo, non dobbiamo limitarci a leggere ciò che scrive, ma dobbiamo imparare a recitarlo.
Deragliata multiculturale a parte, Barbara Gollini dice una grande verità: “[…] e questo vedo che spesso manca nel sito, ci si legge tra persone che la pensano nello stesso modo per me questo ha rappresentato sempre una noia nella mia vita forse perquetso sono sempre stata amante delle culture diversde dalla mia. […]”.
Non è ovviamente un problema di culture diverse, bensì di ricchezza della mappa linguistica utilizzata. Limitandoci agli autori di questo sito, la maggior parte utilizza le stesse parole, le stesse frasi, la medesima sintassi per esprimere quasi sempre gli stessi concetti. Per paura di non essere compresi o per mancanza di strumenti adeguati, costoro cadono nel tranello del voler essere compresi a tutti i costi, e limitano il loro potenziale (quando c’è). Un linguaggio ricco produce un’arte ricca, e arricchisce anche la vita.
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Caro MAssimiliano,
devo dire che questa tua ultima mi ha convinta, forse è ildifetto del mondo virtuale in cui si entra a far parte stando in un sito...è come stare al paesello o come essere un'enclave culturale in un altro paese (come succede a noi italiani di Germania, che abbiamo un linguaggio limitatissimo rispetto agli italiani d'Italia, e molto molto conservatore). Ci si fa prendere facilmente dal canale comunicativo usato e ci si perde in esso.
Barbara
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Sinceramente il linguaggio di Massimiliano, che egli nella prima lettera interpreta nel senso molto riduttivo di "mela" che può essere di vari colori ma non blu... ebbene, io, nella mia mente, ho dato un'interpretazione al nome che a lui non è passata nemmeno per la contraccassa del cervello. Ed ho pensato a tutt'altro tipo di mela. Femminile, naturalmente... del resto "mela" è già di per se stessa di genere femminile...
Altererà questo mio concetto il resto della discussione iniziata? Spero proprio di no.
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Tutt'altro, caro Lorenzo, lo rafforza... e sostiene in qualche modo la mia (che in realtà non è mia) tesi.
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Caro MAssimiliano,
Ci si fa prendere facilmente dal canale comunicativo usato e ci si perde in esso.
Barbara
Ottima, ottima osservazione...
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Grazie Massimiliano,
la comunicazione è di per sé affascinante e terribilmente complessa. Credo che quasi mai o forse mai quello che l'em,ittente intende sia recepito esattamente nello stesso identico modo dal ricevente. Ma il fascino della lingua e del comunicare sta proprio in quello non trovi? A me ha fatto sempre piacere vedere cosa le persone percepivano dalle mie poesie e sinceramente inficiare il tutto con una mia predefinizione di come debba essere letta mi sembra molto limitante. è un po' come scrivere un romanzo, i personaggi che descrivi assumono automomia e sono essi stessi a guidarti e a dirti come devi scrivere e cosa devi scrivere....così è la poesia diventa autonoma e non ti appartiene più nel momento in cui l'hai scritta......la tua mela a me ha rimandato ad un ricordo che ti ho scritto nel commento e per questo forse ho lasciato poco spazio alla fantasia e molto di più al ricordo.
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Quando si legge un topic si dovrebbe imparare ad intervenire solamente ad idee focalizzate, mentre a volte si interviene per esprimere concetti subitanei che poi non sono seguiti da nessun tipo di spiegazione proprio perché immediati ed “a caldo”.
In questo senso trovo poco ortodosso ed inutile il mio primo intervento (su questo stesso topic).
Ci sono due aspetti da prendere in considerazione su quanto detto da Massimiliano e da Barbara.
E’ ovvio che sia, non solo accettabile, ma, auspicabile, un confronto con la “diversità” intesa non come fattore derivante da incontri fra culture interetniche, ma come capacità di riuscire ad attingere a forme di comunicazione diversificate. Non ha importanza la cultura “sociale” dell’interlocutore, quanto la possibilità che l’incontro possa permettere un arricchimento del linguaggio, dell’espressività attraverso la parola sia essa scritta o verbale..
E’ vero che, in genere, si tende a privilegiare, nella lettura, sempre gli stessi autori, ma io credo ciò avvenga, non già per una presa di posizione preconcetta, quanto per la constatazione che, attraverso tali letture si fondino i presupposti per ricevere nuovi e più interessanti stimoli.
La lettura di autori che si sentono più vicini alla propria formazione, non ghettizza la cultura e la produzione delle proprie opere, ma attraverso un processo che potremmo definire “osmotico”, permette di assimilare e metabolizzare più velocemente i concetti che in altre forme di espressioni più elementari o ripetitive potremmo trovare monotone e svilenti.
Direi che bisognerebbe leggere di tutto, ma è inevitabile che la nostra attenzione si fissi e sia attirata da quelle opere che, per espressione e contenuti, siano fonte di arricchimento.
Non trovo, quindi, nulla di deprecabile nella lettura di autori che per le loro capacità espressive, per il pathos, l’originalità dei contenuti, lo svolgersi delle azioni che possono configurarsi al di fuori degli schemi canonici, per il possesso di un vocabolario esteso e utilizzo del linguaggio in maniera originale e intelligente, possano arricchire la nostra cultura.
Mentre trovo sia una inutile perdita di tempo leggere e frequentare gli scrittori che si adoperano ostinatamente a frequentare percorsi ordinari, abusati e monotoni, senza avvertire la benché minima necessità di arricchimento continuando, invece, a ritenere la propria produzione immutabile, inappuntabile e al di sopra di qualunque considerazione di merito.
Ma ovviamente questo era per rispondere a Barbara ed in parte a Massimiliano e, purtroppo, poco c’entra con il tema del topic (vediamo se riesco ad intervenire anche su quello).
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Riprendo il concetto di apertura di questo topic.
La necessità primaria della comunicazione è, innanzitutto, appurare che gli interlocutori siano in possesso di una serie di strumenti (protocollo) che permettano una comprensione reciproca ( ad esempio che tutti parlino il medesimo idioma, che tutti siano in grado di comprendere ogni singola parola e, dove questo non fosse possibile, che tutti siano in possesso di uno strumento che renda loro comprensibili eventuali parole sconosciute, che tutti abbiano la capacità di parlare e di udire, ecc.).
La mancanza di uno solo di questi strumenti da parte di un singolo renderebbe la comunicazione fallace e perciò a senso unico.
Per ciò che concerne la rappresentazione visiva degli oggetti è necessario che (come Massimiliano ricordava) ognuno abbia la cognizione dell’oggetto o che in qualche modo si possa ricorrere ad una ricostruzione, anche se parziale, dell’oggetto stesso.
L’oggetto, nella rappresentazione colloquiale o scritta, non è una trasposizione della forma reale, ma una virtualizzazione mentale della sua identificazione soggettiva (colore, forma, dimensione).
Per questo alla parola mela, ci sarà chi assocerà il concetto di rosso, chi il verde, ma si potrà verificare anche l’eventualità che qualcuno associ il vestito di Biancaneve o una strega maligna, ma tutti avranno comunque il concetto di mela. Il problema sorge quando “mela” è un concetto astruso, in quel momento il protocollo di comunicazione si interrompe ed il dialogo diventa incomprensibile; lì ci sono due possibili vie d’uscita: o si fornisce il concetto di mela all’interlocutore o cade la comunicazione (un po’ come nei computer).
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E vero che, in genere, si tende a privilegiare, nella lettura, sempre gli stessi autori, ma io credo ciò avvenga, non già per una presa di posizione preconcetta, quanto per la constatazione che, attraverso tali letture si fondino i presupposti per ricevere nuovi e più interessanti stimoli.(...) Direi che bisognerebbe leggere di tutto, ma è inevitabile che la nostra attenzione si fissi e sia attirata da quelle opere che, per espressione e contenuti, siano fonte di arricchimento.
d'accordo con il Conte....
ho letto e riletto il topic... ne traggo però un dubbio...
se chi scrive deve guardare alla condivisione del significato.. si sentirà legato nell'esprimersi..
intendo dire.. che non si sentirà libero di utilizzare il linguaggio che gli è proprio.... se risultasse di oscura comprensione..
o forse.... è sufficiente un linguaggio evocativo..che se pur incompreso..regali comunque immagini elaborate dal lettore?
se non ho compreso... me ne scuso.
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d'accordo con il Conte....
ho letto e riletto il topic... ne traggo però un dubbio...
se chi scrive deve guardare alla condivisione del significato.. si sentirà legato nell'esprimersi..
intendo dire.. che non si sentirà libero di utilizzare il linguaggio che gli è proprio.... se risultasse di oscura comprensione..
o forse.... è sufficiente un linguaggio evocativo..che se pur incompreso..regali comunque immagini elaborate dal lettore?
se non ho compreso... me ne scuso.
In un certo qual senso chi scrive cerca di condividere, e dunque è necessario che egli in qualche modo si adoperi perché il suo linguaggio sia correttamente interpretato, d’altro canto egli non può in ragione di ciò limitare la sua espressività e sarà dunque maggiormente il lettore che dovrà (se ne avrà voglia) dotarsi di quegli strumenti che adeguino le sue conoscenze al protocollo di comunicazione adottato dallo scrivente.
Se così non fosse, se fosse cioè lo scrivente a doversi adattare, ne soffrirebbe la capacità di espressione e la comunicazione si appiattirebbe sull’utilizzo dei pochi fonemi necessari a enunciare un concetto nel modo più primitivo possibile.
Per quanto riguarda il linguaggio evocativo nella lingua scritta, esso è paragonabile probabilmente alla gestualità con cui si accompagna un discorso parlato, ma di per sé non è sufficiente a sostituire i concetti filosofici ed astratti che a volte impregnano certi discorsi.
Non so se mi sono capito... ;D
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Se davvero vogliamo comprendere quelle che il poeta ci dice, se davvero vogliamo penetrare nella sua mappa del mondo, non dobbiamo limitarci a leggere ciò che scrive, ma dobbiamo imparare a recitarlo.
Che indendi per recitazione? Se è quello scavare nelle parole sino a che non si è sicuri di aver trovato una chiave interpretativa, una sfumatura delle parole, o quello di cercare di immedesimarsi (mascherarsi, recitare) nell'autore, allora si: una poesia va recitata. E come ogni recita, ed ogni buon attore lo sa, ci si mette del suo, anzi, più un attore mette il suo carattere in un personaggio, tanto più si discosta dal banale della maschera che interpreta, tanto più la recita è riuscita.
Allo stesso modo, più una poesia riesce a coinvolgere ed essere rappresentata da "mondi" differenti, dai diversi modi di sentire, tanto più essa è riuscita, secondo il mio parere.
Ma... su una cosa discordo: limitazioni della struttura stessa del sito sicuramente non permettono una totale libertà di espressione (penso ad es agli ideogrammi) ma quanto sono vari i nostri poeti, invece! Davvero si leggono molti e differenti modi di far poesia.
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In un certo qual senso chi scrive cerca di condividere, e dunque è necessario che egli in qualche modo si adoperi perché il suo linguaggio sia correttamente interpretato, d’altro canto egli non può in ragione di ciò limitare la sua espressività e sarà dunque maggiormente il lettore che dovrà (se ne avrà voglia) dotarsi di quegli strumenti che adeguino le sue conoscenze al protocollo di comunicazione adottato dallo scrivente.
Se così non fosse, se fosse cioè lo scrivente a doversi adattare, ne soffrirebbe la capacità di espressione e la comunicazione si appiattirebbe sull’utilizzo dei pochi fonemi necessari a enunciare un concetto nel modo più primitivo possibile.
Il linguaggio evocativo nella lingua scritta è paragonabile probabilmente alla gestualità con cui si accompagna un discorso parlato, ma di per sé non è sufficiente a sostituire i concetti filosofici ed astratti che a volte impregnano certi discorsi.
Non so se mi sono capito... ;D
quoto, si, ti sei spiegato bene.
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Per quanto riguarda il linguaggio evocativo nella lingua scritta, esso è paragonabile probabilmente alla gestualità con cui si accompagna un discorso parlato, ma di per sé non è sufficiente a sostituire i concetti filosofici ed astratti che a volte impregnano certi discorsi.
Non so se mi sono capito... ;D
..tu si.. io non so.... :D
e se si... quindi.. come fare?
diventa davvero difficile....
se non basta l'evocatività.. chi si esprime in modo meno comprensibile.. dovrebbe semplificare il proprio linguaggio.. e così incorrere nel grave rischio 'luogo comune..figura poetica abusata'.. e mortificare l'istintualità d'espressione... tutto questo parlando ovviamente.. di chi non ha il gene.. del genio.. ;D
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Ho letto con piacere quanto sin qui scritto e pur avendo la consapevolezza di non saper sempre esprimere adeguatamente quel che sento vorrei esporre brevemente solo una mia riflessione che spero mi accomunerà con il pensiero di altri. :)
Alla domanda “Cos’è poesia”, come già detto miriadi di volte, ognuno da risposte diverse. Le risposte sono il frutto di un’esperienza di vita, di un sentire personale e di un linguaggio che si trasforma e nello scrivere trova il suo adagiarsi, nel leggere il suo più o meno appagarsi.
Sarà dopo aver letto le poesie di Tizio , Caio o Sempronio che ognuno individualmente farà le proprie scelte future, scelte che saranno guidate da esigenze individuali che potrebbero avere molteplici ragioni..
Io posso scegliere di leggere poesie, all’apparenza banali per alcuni, per il semplice fatto che a me trasmettono una sorta di serenità e tranquillità che in quel momento mi necessita. E’ un delitto così grave esprimersi con semplicità o cercare nella semplicità appagamento?
Io non credo… perché siamo fatti così… fondamentalmente siamo dei semplici e quando vogliamo trasmettere qualche cosa di pienamente condivisibile scegliamo di avere un linguaggio che sia comprensibile ai più ma alla fine non è che scegliamo…semplicemente ci esprimiamo per quel che siamo.
Chi usa un linguaggio più ricercato lo usa perché spinto da esigenze personali che lo portano a volersi in qualche modo distinguersi dagli altri.
L’uso di parole che spesso non sono comprensibili ai più, gli permette di elevarsi (a parole) ad un linguaggio all’apparenza superiore ma che fondamentalmente alla fine non è altro che un linguaggio atto ad attirare l’attenzione su se stesso e non tanto alla condivisione serena di un sentire.
Sono scelte libere e consapevoli, ognuna delle quali avrà in seguito un proprio riscontro.
Scusate… ma questo è solo una mia riflessione che ho cercato di esporre per poter condividere anche il mio pensiero con voi tutti e spero di averlo espresso nel rispetto di ognuno che alla fine deve sentirsi libero di scrivere come meglio crede, cercando di non ledere la sensibilità altrui.
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Non so se ancora una volta, sull'onda della immediatezza del mio dire e anche sul ritmo della superficialità del mio pensiero, io vada fuori... tema. Oramai però ci sono abituato ed ho acquisito, per questo mio modo di procedere e d'interpretare, una faccia che si suole chiamare di bronzo.
Il "veleno del linguaggio" io lo ritrovo quando leggo qualche commento alle poesie. Mi ritorna sempre la cinica impressione che almeno il cinquanta per cento dei commenti siano fatti con l'unico scopo di acquistare merito verso il commentato che, a sua volta ricambierà con un suo commento.
Trovo giudizi veramente che fanno cascare le braccia, come ho già detto, commenti che potrebbero andare bene, tanto sono insulsi, generici, improvvisati per un unico fine, banali oltre ogni dire, per ogni manifestazione, per un epitalamio di nozze, per un funerale con fiori mortuari, per un pranzo di nozze con primo di cacciucco alla viareggina, per ricordini della Cresima, per languenti poesie d'amore o per strimpellate allegre in barba al contrario destino... e chi più ne ha più ne metta.
Funziona nella fattispecie quella che io ho chiamato la società GAMA (Gruppi Associati Mutua Assistenza) dove gli autori s'incensano a vicenda. Vedo poesie di una banalità sconcertante, addirittura con una ventina di commenti, tutti di esaltazione, e dove le parole "stupenda" "da serbare" "incredibilmente bella" "grande poeta...o poetessa" si elevano alte verso il cielo, sicuramente in mezzo alle lacrime di pianto di soddisfazione del commentato/a.
Dovrebbe davvero in qualche caso insorgere la Redazione stessa, attentissima invece se in una poesia vi sia nascosta l'ombra di una dedica per toglierla, ed avere il coraggio invece di cancellare la banalità di certi commenti, magari con una mail indirizzata all'autore che scriva pressappoco così: " Abbiamo tolto il suo commento perché, leggendolo, ci siamo addormentati all'istante, e ciò è contrario alle intenzioni del nostro sito, che esigono che i lettori non si addormentino togliendo loro lo spazio per la lettura delle poesie.”
Sapete che faccio? Mi iscrivo anch'io alla società Gama, preparo anticipatamente una decina di commenti e li ripeto ogni volta per tutte le poesie. Saranno di un tenore tale che, senza tema, li potrò applicare a ciascuna poesia anche senza leggerla, e saranno tipo: "la grandezza di questo poeta si esplica in un sublime dove il sentimento, la classe, lo stile, la fanno da padrone". Frase aulica che va bene per... ogni espressione poetica di qualsiasi argomentazione.
Riceverò, in cambio, una tale caterva di commenti, che mostrerò orgoglioso e soddisfatto a parenti ed amici, e potrò pomposamente dir loro: "Io si che sono un grande poeta! Guardate quanti giudizi positivi ricevo..."
Anche in questo caso dunque, si può forse essere in tema e non fuori, parlando di "veleno del linguaggio". Un veleno che si diffonde nell'aria ed asfissia. E non c'è maschera antigas che possa servire...
Ditemi, come al solito sono stato troppo teatrale ed esagerato?
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Per approfondire cosa si intende qui con l’espressione “sistemi rappresentazionali”, tenterò di rispondere a una domanda: in che modo un poesia ci cattura? Entriamo nel tema delle “distinzioni”, partendo da alcune verità banali e note ai più. Se qualcuno mi chiedesse di dare una definizione di “realtà”, potrei rispondere solo con una menzogna: ciò che io definisco e percepisco come realtà è distorto dai miei filtri. Non è questo il luogo per definire quali siano i filtri e come operino; richiederebbe troppo tempo. Ci basti sapere, per il momento, che il primo filtro attraverso cui passiamo al vaglio gli input che riceviamo dal mondo esterno, è la nostra esperienza, o meglio, le meta-esperienze che da essa traiamo e che rielaboriamo, trasformandole in generalizzazioni.
Quando comunichiamo attraverso il linguaggio, operiamo una selezione dei predicati e utilizziamo quelli che crediamo essere la scelta migliore per trasferire al ricevente ciò che intendiamo. In realtà, i filtri esperienziali (ma non solo) si riflettono sul nostro output verbale e descrivono solo in parte ciò che i linguisti chiamano “struttura profonda”. Va da sé che il linguaggio, in quanto “struttura superficiale”, è solo un modello del nostro modello del mondo (linguisti e terapeuti avranno già drizzato le orecchie e nella loro mente sarà sicuramente apparsa la parola “Metamodello”). Il poeta deve avere totale e assoluta consapevolezza di questo concetto, poiché è da questa stessa consapevolezza che deriva la capacità e la qualità d’uso di tutti gli strumenti necessari per fare poesia. Tornando alla domanda (in che modo una poesia ci cattura?), si può allora trarre la conclusione che la prima cosa che ci cattura è la consapevolezza del poeta di essere tale. Non esistono poeti inconsapevoli.
Il Conte, con disarmante semplicità e acutezza, pone il tema delle distinzioni: “Il problema sorge quando “mela” è un concetto astruso, in quel momento il protocollo di comunicazione si interrompe ed il dialogo diventa incomprensibile; lì ci sono due possibili vie d’uscita: o si fornisce il concetto di mela all’interlocutore o cade la comunicazione”.
Questa è il fondamento su cui si basa ogni comunicazione logica. Una parola sconosciuta rende la comunicazione astrusa. Ed è proprio di fronte a una parola sconosciuta che, subdolamente, i nostri filtri si mettono in moto: esperiamo l’astrusità davanti alla quale ci troviamo a seconda delle opzioni di scelta che abbiamo: possiamo dirci: “Bene, una parola nuova, voglio conoscerne il significato” e accrescere così la nostra mappa; oppure possiamo dirci: “Ecco, il solito intellettuale che cerca di abbagliarmi con parole ricercate”, e tenerci la nostra mappa impoverita. In entrambi, i casi, filtriamo quel tipo di esperienza a seconda della nostra convinzione su cosa sia o non sia una poesia. Nel secondo caso, ciò che diciamo a noi stessi diventa un veleno che limita il nostro potenziale di crescita come artisti e come esseri umani.
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Ognuno ha il proprio modo di scrivere, e soprattutto ognuno ha finalità e aspettative diverse per ogni poesia pubblicata, c'è chi scrive perchè vuole essere apprezzato e ricevere commenti, chi per sfogarsi, chi per semplice hobby ecc... il punto semmai è un altro: perchè vogliamo che gli altri leggano le nostre poesie?
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... esperiamo l’astrusità davanti alla quale ci troviamo a seconda delle opzioni di scelta che abbiamo: possiamo dirci: “Bene, una parola nuova, voglio conoscerne il significato” e accrescere così la nostra mappa; oppure possiamo dirci: “Ecco, il solito intellettuale che cerca di abbagliarmi con parole ricercate”, e tenerci la nostra mappa impoverita. In entrambi, i casi, filtriamo quel tipo di esperienza a seconda della nostra convinzione su cosa sia o non sia una poesia. Nel secondo caso, ciò che diciamo a noi stessi diventa un veleno che limita il nostro potenziale di crescita come artisti e come esseri umani.
..si.. ed è in questo spirito che credo ci si dovrebbe avvcinare.. non soltanto alla poesia...ma ad ogni testo.. di qualsiasi natura.... anche a un topic.. ;D
..per quanto riguarda la poesia.. a mio parere l'uso di terminologie.. diciamo.. dotte.. deve però suonare sincero e scorrevole.. e non avvertirlo come una ricercata forzatura... nato quindi con nauralezza da un'effettivo bagaglio culturale di chi scrive.. e non da una forzata ricerca di esso...
..diversa, credo sia..un'operazione di ricerca e sperimentazione sul linguaggio.... che avrebbe in sè.. altri evidenti intenti...
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se non basta l'evocatività.. chi si esprime in modo meno comprensibile.. dovrebbe semplificare il proprio linguaggio.. e così incorrere nel grave rischio 'luogo comune..figura poetica abusata'.. e mortificare l'istintualità d'espressione...
No Amara, chi si esprime non deve semplificare il proprio linguaggio, perché come giustamente afferma Massimiliano Manocchia:
“è proprio di fronte a una parola sconosciuta che, subdolamente, i nostri filtri si mettono in moto: esperiamo l’astrusità davanti alla quale ci troviamo a seconda delle opzioni di scelta che abbiamo: possiamo dirci: “Bene, una parola nuova, voglio conoscerne il significato” e accrescere così la nostra mappa; oppure possiamo dirci: “Ecco, il solito intellettuale che cerca di abbagliarmi con parole ricercate”, e tenerci la nostra mappa impoverita.”
...Chi usa un linguaggio più ricercato lo usa perché spinto da esigenze personali che lo portano a volersi in qualche modo distinguersi dagli altri.
L’uso di parole che spesso non sono comprensibili ai più, gli permette di elevarsi (a parole) ad un linguaggio all’apparenza superiore ma che fondamentalmente alla fine non è altro che un linguaggio atto ad attirare l’attenzione su se stesso e non tanto alla condivisione serena di un sentire.
Tiziana permettimi di dissentire.
Intanto bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato del termine “ricercato”. Per me la ricercatezza di un termine o del linguaggio in generale (poetico in questo caso), potrebbe essere rappresentato dall’esigenza di un utilizzo di una struttura o di una tecnica poetica che non siano necessariamente di difficile comprensione, ma che diano l’impronta personale al testo che mi accingo a scrivere. L’utilizzo del linguaggio che tu definisci “ricercato” è semplicemente dettato da un’esigenza espressiva che porta a semplificare i concetti attraverso la ricercatezza non dei termini, ma del linguaggio in generale .
Non mi riferisco a coloro che sfogliano il vocabolario alla ricerca di termini desueti e il più possibile d’effetto, quanto alla volontà di descrivere situazioni ordinarie facendo ricorso a terminologie non ossidate.
Ti assicuro che in questo non c’è alcuna spinta autoerotica, e nemmeno la necessità di primeggiare.
Del resto la premessa nei miei post precedenti parla chiaro: si scrive per coloro che sono in grado di capire e per coloro che hanno voglia di capire.
…c'è chi scrive perché vuole essere apprezzato e ricevere commenti, chi per sfogarsi, chi per semplice hobby ecc... il punto semmai è un altro: perché vogliamo che gli altri leggano le nostre poesie?
Direi che questa è la risposta più semplice: si scrive perché si ha voglia che qualcuno legga sperando che sulla stessa lunghezza d’onda ci sia qualche altra trasmissione.
...per quanto riguarda la poesia.. a mio parere l'uso di terminologie.. diciamo.. dotte.. deve però suonare sincero e scorrevole.. e non avvertirlo come una ricercata forzatura... nato quindi con naturalezza da un effettivo bagaglio culturale di chi scrive.. e non da una forzata ricerca di esso...
Perfetto!
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Il tema è interessante (come sempre quelli proposti da Massimiliano). Butto là qualche riflessione da non esperto. :)
Il linguaggio già determina la nostra percezione e comprensione del mondo.
Sarebbe possibile la riflessione senza il linguaggio? Fino a che punto saremmo capaci di cogliere sfumature della realtà che non abbiano equivalente nel linguaggio?
Il linguaggio è il materiale con il quale è costruita la nostra rappresentazione del mondo.
Per questo la parola ha avuto sin dal suo inizio una funzione magica; essa è capace, a sua volta, di evocare la cosa.
A questa funzione fa riferimento lo scrittore, ed in modo particolare il poeta; egli evoca un mondo attraverso il linguaggio.
Tutto sommato non sono sicuro che il veleno che si effonde nella comunicazione attraverso il linguaggio sia maggiore di quello che "avvelena" il nostro rapporto col mondo.
Certo il mondo evocato dal poeta è spesso volutamente sfumato, indefinito... (io credo: proprio perché tenta di dire l'indicibile).
Ma una descrizione precisa, ben normata, può ottenere effetti di esattezza superiori alla percezione diretta delle cose.
La carente conoscenza del linguaggio in cui avviene la comunicazione da parte di uno o più dei comunicanti è un tipo di veleno di tutt'altra natura, che non è imputabile al linguaggio in sé.
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leggo e rileggo i post e debbo dire che convengo con quanto detto da Massimiliano e da Conte sull'uso del linguaggio più ricercato/colto/elaborato o quant'altro e convengo e sottoscrivo che la ricerca d'esso non è in realtà per il poeta un voler mostrare, ma un atto quasi autoerotico di stimolazione del proprio intelletto e del compiacersi nel farlo. Questo accade (ad esempio a me) anche quando si leggono cose straordinarie, che possono essere trovate anche al di là del gruppo che si sceglie perché ci ritroviamo inesso come era statoa nche dettto in precedenza ( anche se io continuo a ribadire che per me non vale in quanto trovo sempre molto noiose le persone che la pensano come me e sono sempre alla ricerca di altro dal mio, forse per la mia irrequietezza e incostanza non so bene). Purtuttavia, è da quando ho letto l'intervento di Conte che rimetteva i puntini sulle i, che mi torna in mente sempre e solo una persona la cui storia mi ha sempre impressionato molto quella di Walter Benjamin un ebreo tedesco di cui penso conosciate tu`tti la storia che non è stato capito che dopo tantissimi anni e la cui vita è stata una tragedia alla luce della fuga dal nazismo e di un altro molto personaggio molto meno conoscito un certo Rudolf Kaufman (BAci di Carta, ve ne consiglio la lettura), perché questi due uomini? Beh! perché il primo non è stato compreso in qunato il veleno nel suo linguaggio era l'essere andato troppo oltre la media degli intellettuali che non gli diedero il dottorato e lo obbligarono a ritirare la sua tesi che oggi viene considerata la base del pensiero moderno, e l'altro perché il veleno nel suo linguaggio era quello di non essere stato, a lui la vita non ha dato nemmeno la possibilità di esserè. Non chiedetemi perché vi pongo questi miei pensieri. Se le associazioni sono rizomi impazzitri e i poeti dei folli storditi, beh! allora questo è quanto m'è venuto e anche se conte ci terrà a rimette le scose in ordine non potrà impedirmi di essere libera nell'associare giusto? ;D ::)
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Chiedo venia, sono mortificato dalla mia stessa ignoranza, ma non conosco i due autori da te citati. Pur tuttavia prendendo atto di quanto tu affermi, mi sembra che non ci siano puntini da mettere a posto, perché mi dai conferma, quando dici: “il suo linguaggio era l'essere andato troppo oltre la media degli intellettuali”, di quanto io stesso ho affermato.
Anche loro rifiutavano la “filosofia” imperante a quei tempi e mi sembra di capire che con il loro atteggiamento abbiano messo in discussione quelli che erano i canoni letterari di allora. E gli intellettuali loro contemporanei rifiutavano il loro modo di porsi perché in contrasto con il pensiero generale esattamente come ora il ben pensiero rifiuta il linguaggio “ricercato” e fuori dagli schemi ripetitivi.
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accidenti! scusami conte, ho citato qualcosa dando per scontato qualcos'altro(ecco l'inganno della comunicazione).....eppure da buona insegnante avrei dovuto far dimeglio :-\, nn scherzo giuro! Mi pongo sempre questo problema quando la comunicazione manca di qualche elemento acc! Hai ragione, ora finalmente con questo parlare di tutto e di più ho capito cosa intendi e che significato dai a linguaggio elevato. Una grande limnguista polacca di cui ho avuto al fortuna di seguire le lezioni , diceva che-come penso stiamo dicendo da qualche intervento qui- il significato semantico di una parola e un concetto, pur se definito dalla regola, può nascondere alcunoi tranelli nell'intrpretazione personale (e qui mi riparlo addosso e risottolineo quello che massimiliano e conte dicono)aiuto!! mi sono persa! accidenti! Quel che volevo dire è che finalmente ora so cosa intendi e credo che su questo concetto non si possa nn essere daccordo. Chi si proietta nel futuro percepisce il passato come arcaioco e superato, allora vi pongo io una domanda alla quale ho trovato da anni una mia risposta. Il futuro deve cancellare tutto il passato con un colpo di spugna come spesso sottolineavano i futuristi oppure deve farsi forte del suo passato e portarlo nel nuovo come sottolineava Nietzsche?
barbara
p.s. èmolto molto difficle esprimere quanto si vuol dire in un forum anche questo è un problema di comunicazione, menomale le faccine allora che riespcono a rendere in parte il sentimento per null'affatto arrogante che si nasconde dietrop queste nostre discussioni, molto molto stimolanti! :laugh:
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Vorrei prendere l’intervento di Gaia22 per dare una dimostrazione “pratica”. L’autrice dice: “…perché siamo fatti così…”. Se ci prendiamo la briga di analizzare questa struttura superficiale, scopriamo immediatamente che è incompleta. Manca innanzi tutto un indice referenziale (chi è fatto così?). L’altra domanda da porre per far emergere la struttura profonda è: come siamo fatti? E proseguendo: siamo TUTTI fatti così?
Posto che la frase non sia stata buttata lì per caso tanto per riempire un po’ di spazio bianco, ci risulta difficile penetrare la mappa di chi l’ha scritta. Per trovare un senso, siamo obbligati a proiettare su di essa la nostra mappa, la nostra esperienza. Vado oltre. L’uso del verbo essere in forma così fortemente assolutista denota una pericolosa cristallizzazione di identità. Ogni volta che diciamo “Sono fatto/a così”, finiamo davvero col crederci e ci identifichiamo col nostro “essere fatti così”. Ma nessun essere umano “è fatto così”. Siamo in continua, costante evoluzione – io non sono già più la persona che ha iniziato cinque minuti fa a scrivere questo post. Dire a noi stessi “siamo fatti così” significa usare il linguaggio come un incantesimo che si auto-realizza. Significa usare il linguaggio come un veleno che ci paralizza. Ancora una volta: come artisti e come esseri umani.
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i- il significato semantico di una parola e un concetto, pur se definito dalla regola, può nascondere alcunoi tranelli nell'intrpretazione personale ...(omissis)...
Chi si proietta nel futuro percepisce il passato come arcaioco e superato, allora vi pongo io una domanda alla quale ho trovato da anni una mia risposta. Il futuro deve cancellare tutto il passato con un colpo di spugna come spesso sottolineavano i futuristi oppure deve farsi forte del suo passato e portarlo nel nuovo come sottolineava Nietzsche?
Ma nessun essere umano “è fatto così”. Siamo in continua, costante evoluzione –
Può sembra strano, ma io ho la concezione dell'essere umano come di una cipolla fatto a strati ( ;D Si, la cipolla fà piangere, ma questa è un'altra storia.)
Ora ogni strato rappresenta le nostre esperienze, sicchè ci troviamo ad assorbire strati su strati ogni, non minuto, ma secondo che passa. Ogni cosa che "percepiamo" aggiunge uno strato al nostro essere, per cui finchè abbiamo in qualche modo, qualsiasi modo, contatto con il mondo, noi variamo: siamo cioè prodotti di noi stessi, delle nostre percezioni, in continua evoluzione.
Alla stessa stregua, il presente non può che essere il prodotto del passato, e quegli sprazzi di "visioni future" non sono che presente. Come la storia dimostra, non tutti arrivano alle stesse conclusioni, non tutti arrivano ad una stessa conclusione nello stesso istante. Non si tratta quindi di "gettare all'aria" il passato, (rinnegheremmo il nostro essere, o se preferite come poeti, il nostro "bambino" così presente nei nostri sogni e contraddizioni) ma servirsi di esso per poter avere una esatta concezione di presente. Concludendo: tanto più il passato ci appartiene, tanto più abbiamo le conoscenze, meglio possiamo interagire con il nostro presente, ma attenzione, per conoscenza non intendo soltanto nozione, ma anche e soprattutto il "nostro essere vissuto". Quante volte ci stupiamo della saggezza di un ignorante qualsiasi che però magari "conosce il mondo" e lo interpeta come noi non riusciamo a fare? Probabilmente perché il "suo vedere" ha proprio quella risposta che noi pensavamo di star cercando per vie traverse. Mi ritorna il mente il libro "il formaggio e i vermi" (Ginzburg) egregia descrizione del mondo fatta da un contadino davanti al tribunale della santa inquisizione.
Ritornando al nostro post, posso dire che tanto più riusciamo ad incidere nello strato altrui con la comunicazione adatta a lui, (non ci si rivolge al bambino come ad un adulto) meglio avremo raggiunto l'obiettivo della nostra comunicazione. Importante diviene quindi anche la "scelta" del nostro "obiettivo" (lettore) della comunicazione. Ogni insegnante lo sa!
La "scelta del target" potrebbe anche essere lasciata al caso: chi vuol capire, capisca. O se preferite: sono curioso di sapere chi è colui che riesce ad afferrare la mia comunicazione, io esprimo quel che desidero condividere, un pochino come: "chi vuole? un gelato al cioccolato? Preferisci la crema? Pazienza, io ora ho il cioccolato, chissà, forse domani se mi dici come si fa la crema, (o se ho voglia di farlo, già ne possiedo le competenze) io te ne farò uno"
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Cerco di capire.
Ad esempio, se io dico:
Immagina una mela renetta di colore giallo, forma regolare, diametro circa 9 cm
La descrizione è sufficientemente precisa e ognuno che abbia cognizione dei termini usati comprenderà con esattezza di cosa sto parlando (anche se poi ognuno si rappresenterà la sua mela in base alla propria esperienza).
Ho definito con buona esattezza l’oggetto del mio discorrere.
Se dico:
Immagina una mela
Ognuno si immaginerà la sua mela, chi rossa, chi verde, chi gialla, chi grande, chi piccola, e Lorenzo un altro tipo di mela.
Ho definito l’oggetto di cui parlo in maniera generica.
Se dico:
Una mela mi osserva
Non definisco una situazione oggettiva, ma un’impressione soggettiva, con una espressione oggettivamente assurda, ma che può essere ugualmente significativa se riesce ad evocare una qualche esperienza soggettiva nel lettore.
In nessuno dei casi il linguaggio introduce un veleno nella comunicazione, svolge semplicemente la funzione che in ciascun caso gli si è assegnata: ora di fornire una descrizione più o meno esatta, ora un’immagine oscuramene evocativa.
Certo il linguaggio costituisce pur sempre un filtro tra la nostra conoscenza e la realtà, ed il suo uso comune contiene molte ambiguità. Tuttavia, di fatto, svolge adeguatamente il suo compito comunicativo ed il livello di precisione, di suggestione o di ambiguità della comunicazione dipende dall’uso che se ne fa.
Si è poi parlato dell’utilizzo di luoghi comuni e di immagini poetiche stereotipate. Da questo punto di vista il veleno diventa il restare imprigionati in certi schemi linguistici i quali si ritiene siano gli unici a garantire una comunicabilità. Ma anche in questo caso, mi sembra, il veleno consiste nell’uso, non nel linguaggio in sé.
In definitiva, io direi che quello che fa la differenza, nell’arte, è l’uso originale del linguaggio (sia esso quello pittorico, cinematografico, poetico ecc.), compresi i suoi luoghi comuni ed i suoi stereotipi. L’efficacia definitoria della comunicazione non è determinante, nel senso che può essere cercata o meno.
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Il futuro deve cancellare tutto il passato con un colpo di spugna come spesso sottolineavano i futuristi oppure deve farsi forte del suo passato e portarlo nel nuovo come sottolineava Nietzsche?
Secondo me cancellare il passato è pura illusione: noi siamo il nostro passato. L’alternativa è usarne consapevolmente o usarne senza saperlo?
Meglio la prima.
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Cerco di capire.
Ad esempio, se io dico:
Immagina una mela renetta di colore giallo, forma regolare, diametro circa 9 cm
La descrizione è sufficientemente precisa e ognuno che abbia cognizione dei termini usati comprenderà con esattezza di cosa sto parlando (anche se poi ognuno si rappresenterà la sua mela in base alla propria esperienza).
Ho definito con buona esattezza l’oggetto del mio discorrere.
No, credo che il "veleno" nasca dal fatto che io possa pensare: "ma il diametro è verticale, od orizzontale? Massimo o minimo? O la mela è completamente tonda come un'aracia? No, la mela non è tonda, secondo me... " ecc... ecc...
Il veleno nascerà nel momento in cui tu dirai... dalle un morso, magari per dirmi che ne senti il succo fluire, piacevole e dissetarti... invece a me non piacciono le mele! E comincio a sentire lo stomaco in disordine.
Quindi per una buona comunicazione, bisogna anche che il lettore "sappia sentire", che si ponga la domanda: cosa mi vuol far capire? Cosa cerca di comunicare? Ed in questo, tanto più esiste la empatia bilaterale, tanto la comunicazione risulterà efficace. Si, mi rivengono sempre in mente le mie cipolle ed i neuroni a specchio! Questi ultimi io, per mia visione personale, o filosofia se credete meglio, li identifico proprio con l'empatia.
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Ma non credo che sia questo, Marina. Una mela renetta ha caratteristiche ben precise, non è un’arancia.
Il linguaggio può essere sufficientemente preciso per gli usi ordinari (nella misura che di volta in volta si richiede), ove la sua precisione non è sufficiente sono stati introdotti specifici linguaggi formali.
Quando in poesia si usa il linguaggio in maniera non ordinaria, e il significato non risulta univoco, lo si fa o perché ciò che si vuole esprimere non è esprimibile esattamente o pienamente con un uso ordinario del linguaggio, ed allora si cerca di suggerirlo con un suo uso creativo, oppure perché proprio si ricerca una originalità di espressione.
Altro è il fatto che il linguaggio condiziona il nostro approccio alla realtà, crea un condizionamento culturale: questo può essere un veleno.
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con la famosa linguista polacca SI PARLAVA GUARDA UN PO' PROPRIO DELLA MELA E DEL SUO SIGNIFICATO SEMANTICO E IN AULA LA NOSTRA COLLLEGA VIETMANAMITA, CERCANDO SUL DIZIONARIO TROVÒ TRADOTTA MELA CON IL TERMINE CORRISPONDENTE IN VIETNAMITA : cHE C'É DI STRANO? BEH! ANALIZZANDONE IL SIGNIFICATO SEMANTICO LEI (LA VIETMANMITA) NON RIUSCIVA A CAPIRE; MA UNA MELA NON È ROSSA O GIALLA O TUTT'É DUE E NEMMENO GRANDE E FORSE VERDE!!!! IN VIETNAM UNA MELA HA TUTT'ALTRO ASPETTO É PICCOLA E MARRONE. aCCIDENTI QUALCOSA NON AVEVA FUNZIONATO! Accipicchia al mio computer! ho scritto tutto in maiuscolo o per dirla in italiano germanico tutto grande!
ho un gran porblema di comunicazione con il mio notebook......non ci capiamo a fondo....e pasticciamo insieme messaggi sul forum.
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Naturalmente “mela” in italiano e “mela” in vietnamita sono due parole diverse appartenenti a due contesti linguistici diversi e i loro significati potrebbero coincidere solo parzialmente.
Questo potrebbe essere un esempio, abbastanza innocuo, del fatto che il linguaggio costituisce un condizionamento culturale.
Tuttavia, se la ragazza vietnamita, conoscesse davvero bene l’italiano, sentendo parlare di “mela renetta” si rappresenterebbe una mela renetta (sempre che la abbia presente) e non una mela vietnamita.
Sentendo parlare di “mela” senza ulteriori specificazioni si rappresenterebbe la mela che le è più familiare: quella vietnamita. Il livello di precisione della comunicazione glielo consentiva, forse il parlante non aveva messo in preventivo una rappresentazione del genere, forse lui pensava a una mela rossa. Probabilmente non era importante, per l’efficacia della comunicazione, a quale tipo di mela si pensasse. Se invece era importante, il fraintendimento è dovuto all’uso non sufficientemente accorto (in rapporto alla situazione) del linguaggio, non al linguaggio stesso.
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Non sono sicura di aver compreso il succo del discorso, ma dato che sto scrivendo mi sto convincendo momentaneamente di potermi fare un'idea o di poter apportare un'opinione.
Le parole non sono gli oggetti che rappresentano (non sono d'accordo),sono simboli certo, tant'è che la logica, la fonetica, la filologia ecc non sono un'opinione, non per tutti almeno..
Ciò che però vorrei dire (sono stati citati molti autori ma ne mancano almeno due, uno dei quali non tratterò eheh) è che per quanto riguarda il legame tra espressione linguistica e individuo (tutto è soggettivo, ma anche no eheh) bisognerebbe citare il signor Frege che tanto ha detto e tanto ha fatto in proposito..ribalto un po' la questione quindi riportando l'esempio della mela (io ho pensato a Biancaneve, ma penso che sia colpa della mia tenerissima età ahahah)..
L'enunciato "c'è una mela" presuppone che esista una mela in questione..in questo senso la parola mela è esattamente congruente all'oggetto mela..allora non è più vero che le parole non sono gli oggetti che rappresentano.
Mettiamola così: se non ci fosse il soggetto pino non ci sarebbe la parola pino..è in realtà il soggetto pino a costituire un simbolo oggettivo da poter agganciare all'espressione pino anch'essa oggettiva (se dico pino nessuno pensa ad un crostaceo). Ora però vorrei anche far notare come, nel linguaggio naturale, sia anche possibile introdurre nomi senza riferimento. Prima ho parlato di Biancaneve, ma possiamo anche pensare alle formule matematiche e via dicendo.
Quindi?? quindi ci sarebbe da farsi una bella risata, stingere metaforicamente la mano a tutti questi signori e andare a mangiarsi un piatto di spaghetti..non lo si fa, meglio così per certi versi.
La cosa che volevo far capire è che noi possiamo dire tutto di tutto, possiamo parlare di tutto anche di quello che non esiste.
Per quando riguarda la poesia, sono dell'idea che un corso di logica linguistica non possa aiutare chi non è portato..la tesi qui difesa da una persona in particolare, secondo la quale tutto ciò che viene scritto è degno di pensieri buoni perchè arriva dall'anima lascia il tempo che trova..la poesia è poesia, qualunque cosa essa sia..c'è da dire però, che il soggettivismo difeso a costo di tutto non mi garba..l'arte, quella vera e quindi anche la poesia, è degna di lode solo se oggettiva, quindi se parlo di tramonti lo dovrei fare talmente bene da suscitare in tutti la stessa immagine..i greci e i romani c'erano riusciti..
Buona giornata a tutti
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Naturalmente “mela” in italiano e “mela” in vietnamita sono due parole diverse appartenenti a due contesti linguistici diversi e i loro significati potrebbero coincidere solo parzialmente.
Questo potrebbe essere un esempio, abbastanza innocuo, del fatto che il linguaggio costituisce un condizionamento culturale.
Stefano questi sono problemi sui quali ancora oggi c'è chi perde la ragione..una conclusione alla quale sono arrivati i dotti in questione è che "non esiste una traduzione corretta ed assoluta"..in questo modo ci si toglie dai pasticci e la ragazza vietnamita che conosce l'italiano o la ragazza italiana che conosce il vietnamita si può permettere di chiamare "frutta" una mela :)
(non sono capace di fare le citazioni ahahahahahahahahah)
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Credo che tutto ciò che è stato scritto sia corretto, le contraddizioni nascono se gli obiettivi non sono comuni.
Se la premessa è quella di una comunicazione dall'autore al lettore, è valido il concetto dell'utilizzo di termini appropriati da parte del Poeta e di una base culturale da parte del lettore, oltre che curiosità e voglia di sfogliare un vocabolario.
Se invece la premessa è quella di una comunicazione possibile, ma non a tutti, allora le cose cambiano.
Ci saranno lettori che non capiranno e non proveranno niente, altri che per una capacità o casualità di sintonizzazione, avranno l'accesso alla fonte ispirativa dell'autore, saranno quindi capaci di interpretare e sentire ciò che leggono (sempre con il vocabolario vicino).
Se l'ispirazione è, come si dice, estranea ad un autore, lui è soltanto il canalizzatore, allora conta sì la preparazione che lui ha per scriverla; conta la forma, la musicalità ecc...
L'ispirazione, a volte, può trovare impreparato un autore, che non avendo schemi o riferimenti nel suo vissuto, può scrivere cose che anche a se stesso sembrano ''aliene''.
Concludo dicendo che se dovessi leggere una poesia vietnamita, sicuramente non potrei entrare a pieno nelle immagini trasmesse, ma penso (forse) che sarei cosciente di leggere una poesia.
L'importanza di leggere la biografia di un autore, prima di avvicinarsi ai sui scritti, è una cosa che si impara già a scuola, anche se noiosa.
Scusate se sono un pò fuori tema, lo sono sempre. ;D
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Ora però vorrei anche far notare come, nel linguaggio naturale, sia anche possibile introdurre nomi senza riferimento. Prima ho parlato di Biancaneve, ma possiamo anche pensare alle formule matematiche e via dicendo.
Anche se non c’è un riferimento oggettivo c’è comunque un concetto o un’idea a cui quelle espressioni fanno riferimento. D’altra parte anche nel caso della mela resta tutt’altro che certo se dietro la percezione della mela, dietro al fenomeno mela (per dirla con Kant) ci sia una “cosa in sé” e che cosa sia.
In questo senso il linguaggio, rimanendo al livello dei fenomeni e dei concetti astratti, è un porto sicuro: la chiave di lettura e di interpretazione di un flusso di esperienza di per sé magmatico.
Per quando riguarda la poesia, sono dell'idea che un corso di logica linguistica non possa aiutare chi non è portato..
Concordo.
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Stefano ma come fai a citare così??? a me rimane tutto azzurro ahahahahah
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per me che vivo in un contesto culturale estremamente multi e che nn ho mai vissuto all'insegna di un tipo culturale anche se posso definirmi italian nn solo perché parlo l'italian dalla nascita,è molto difficile restringere il mio spaziare (visto che poi parlo 5 lingue e adoro molte delle culture di cui parlo le lingue in aprticolare una), ma mi rendo conto che questo diventa UN DIFETTO EPUR CONCORDANDO APPIENO CON QUANTO DETTO DA CORRIPIO; DEBBO DIRE CHE CERCO DI NON LEGGERE MAI LA BIOGRAFIA DI UN AUTORE PRIMA DI LEGGERLO; MA SEMPRE DOPO PERCHÉ MI PIACE VEDERE SE RIESCO NONOSTANTE TUTO A PERCEPIRE IL SUO MESSAGGIO O COMUNQUE QUALCOSa. è vero quanto dice Frammento che, normalmente si stabiliscono delle convenzioni che ci portano a dover esprimere la poesia in un certo qual modo, ma allora quanto artisticamente rilevante, ma estremamente originale deve rimanere fuori dal concetto di poesia? O invece se ne devono ristabilire i canoni? Per quel che riguarda invece il concetto espresso da Frammento che la cosa fa la parola (è il pino che fa il pino), mi dispiace ma nn condivido e con Maigritte sostengo che "ceci nest pas une pipe"!
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Barbara prima di tutto piacere..non ci conosciamo :)
Intendevo dire che se non ci fosse l'oggetto pino, faticherebbe ad esistere la parola pino..poi tu apporti una citazione che adoro eheh che però ha un significato decisamente più profondo, che esula anche dalla logica comune se vogliamo..questa non è una pipa, vero..tant'è che potremmo indicare il sole e dire "quello non è il sole"..ma credimi se ti dico che avremmo decisamente più difficoltà a comprenderci..
Il linguaggio è una convenzione per avvicinare gli uomini..l'immaginazione è una convenzione per allontanarli (per quanto io ci sguazzi con piacere).Il significato può essere certo soggettivo, ma sta di fatto che se guardo il sole non sto guardando una borsa di Chanel..quando qualcuno ammette il contrario di solito finisce in cura da uno psichiatra..a meno che non si chiami Magritte :)
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Stefano ma come fai a citare così??? a me rimane tutto azzurro ahahahahah
accertati di uscire dal quote finale della citazione! hehehe
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Mi piacerebbe tanto intervenire, ma la mia incompetenza (o ignoranza) me lo impedisce. Questo post è illuminante.
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Per quel che riguarda invece il concetto espresso da Frammento che la cosa fa la parola (è il pino che fa il pino), mi dispiace ma nn condivido e con Maigritte sostengo che "ceci n'st pas une pipe"!
Magritte non dava alla sua affermazione "Ceci n'est pas une pipe" il significato che tu gli attribuisci. Voleva invece intendere che quella non era la vera pipa ma la sua rappresentazione pittorica. Ovvero la pittura, l'arte è sempre una rappresentazione della realtà non la realtà stessa. Pertanto nel rappresentarla io posso modificarla a piacimento fino a stravolgerla, cosa che egli faceva puntualmente. Ma se io indico una pipa su un tavolo e dico "quella è\non è una pipa", allora è chiaro che nel primo caso sto dicendo la verità, nel secondo una falsità, secondo le comuni convenzioni del linguaggio. Se poi voglio ribattezzare la pipa con un altro nome, padronissimo, basta saperlo per intenderci. Conosco persone il cui vero nome è Giovanna ma si fanno chiamare Rosanna, pare da sempre!
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esattamente quello che dicevo....il significato semantico e la realtà, una pipa è una pipa se cosi la definisci sia in pittura che in semantica, nn lo è più se da sempre la chiami sedia....definire aiuta ad orientarsi ma limita
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esattamente quello che dicevo....il significato semantico e la realtà, una pipa è una pipa se cosi la definisci sia in pittura che in semantica, nn lo è più se da sempre la chiami sedia....definire aiuta ad orientarsi ma limita
Scusa se insisto ma non è così.
Per amor di precisione, non certo per aver l'ultima parola.
Frammento, come ella stessa ha dichiarato, ha affermato che se non ci fosse l'oggetto non esisterebbe neanche la parola per definirlo. Questa affermazione è nel contempo tautologica e profonda. E' tautologica se pensiamo che se non c'è l'oggetto non ci verrebbe in mente, ovviamente, di coniare una parola per definirlo. Potrebbe però accadere che, ad esempio, la parola "sole", in mancanza dell'attuale oggetto "sole" avrebbe potuto essere usata per definire un altro oggetto. E qui entriamo nel campo irrisolto dell'origine del linguaggio quando eravamo poco più che scimmie e poco meno che umani. Com'è accaduto che abbiamo chiamato sole il sole? Naturalmente è solo un esempio in quanto non si sa come chiamavano il sole i primi ominidi, forse con un breve grugnito onomatopeico del tipo "el-el". Mi chiedo se le attuali scimmie hanno un grugnito per il sole. Ma c'è un altro aspetto ancora. Se continuando ad esplorare la realtà scopriamo un oggetto che non somiglia a nulla di ciò che abbiamo sperimentato fino ad adesso come lo chiameremo? Sarà interessante verificarlo. Inoltre la considerazione di Magritte andava al di là della semantica, del rapporto parola-oggetto,problematica già ben nota e studiata anche ai suoi tempi(Semantica in wikipedia), si riferiva al fatto che la rappresentazione pittorica,accurata che volesse essere, da una parte non poteva cogliere tutti gli aspetti della realtà, d'altronde neanche la fotografia lo può, dall'altra che abbiamo il diritto di manipolare la realtà nella sua rappresentazione. Infine non mi è chiaro cosa intendi quando affermi "...definire aiuta ad orientarsi ma limita". In che senso mi limita il fatto di definire sole il sole? E poi come potremmo fare altrimenti? In qualche modo dobbiamo pur denominarlo. Naturalmente il mio sole può non essere il tuo nel senso che le esperienze, i ricordi, le emozioni, le riflessioni associate ad esso sono diverse per ciascuno di noi. C'è chi sotto il sole trova l'amore e c'è chi sperimenta la disperazione. Ma per esprimere questo occorrono più parole, la poesia ad esempio.
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In semantica si distingue fra significato denotativo e significato connotativo delle parole. Il primo è quello che definiremmo basico: la parola casa rimanda a una costruzione parallelepipeda con tetto, ecc. Il secondo è quello che l'immaginario collettivo gli attribuisce: casa è nel mondo sinonimo di famiglia o rifugio, identità, patria di origine e così via. Ora, poniamo che per un artista la parola o l'immagine della casa evochi qualcosa di non così rassicurante: in un quadro la rappresenterà in modo angosciante, in una luce buia ad esempio; in una poesia, assocerà a questo sostantivo aggettivi e immagini che contraddicano il significato connotativo universalmente accettato. Si avrà quindi un effetto straniante tipico solo di quell'artista e di nessun altro; egli interpreta a modo suo il bagaglio lessicale/immaginativo dell'essere umano, e questo è arte.
In epoca contemporanea si è dato largo spazio a questa interpretazione personale del mondo ma anche quando in arte si parlava di "naturalismo", a ben vedere comunque l'artista dava la sua visione personale, non altro. Come detto sopra, questo accade anche nella fotografia.
L'artista è colui che ha dentro un significato delle cose (di conseguenza, in poesia, delle parole per definirle) che si distacca oltre che da quello denotativo anche da quello connotativo universale. Mi viene in mente il celebre aforisma di Wilde secondo cui "Un poeta che chiami zappa una zappa dovrebbe essere condannato ad usarla" ;).
Pensando alla pittura mi viene in mente Edward Hopper, considerato un "realista", che invece carica enormemente i suoi quadri con atmosfere completamente oniriche; o le piazze di De Chirico, perfettamente irreali nel loro realismo.
Quand'è che c'è il veleno nel linguaggio? Secondo me quando il poeta (tornando alla poesia) usa i significati comuni in contesti comuni (perché un effetto poetico può derivare anche dall'usare significati comuni in un contesto non comune; un esempio è Montale con il suo correlativo oggettivo o anche Dante, che descrive tutto per benino come se fosse vero e normale nella DC ma sappiamo che non è così). Insomma, se io dico "oggi ho il cuore spezzato/ perché il mio uomo se n'è andato" anche se c'è la rima non è poesia perché ci sono parole usate normalmente in un contesto normale. Se invece dico "raccolgo intorno a me i frantumi degli specchi/il giorno sembra stanco come un vecchio" (è penosissima, lo so; giusto per buttare un esempio :-\) sono sulla strada buonina: ho usato parole riconoscibili in un contesto diverso, attribuendo agli oggetti e al tempo il mio stato d'animo.
Io non so se ho dato un contributo utile, se ho detto cose fuori tema...come non detto! ;D
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Quand'è che c'è il veleno nel linguaggio? Secondo me quando il poeta (tornando alla poesia) usa i significati comuni in contesti comuni (perché un effetto poetico può derivare anche dall'usare significati comuni in un contesto non comune; un esempio è Montale con il suo correlativo oggettivo o anche Dante, che descrive tutto per benino come se fosse vero e normale nella DC ma sappiamo che non è così). Insomma, se io dico "oggi ho il cuore spezzato/ perché il mio uomo se n'è andato" anche se c'è la rima non è poesia perché ci sono parole usate normalmente in un contesto normale. Se invece dico "raccolgo intorno a me i frantumi degli specchi/il giorno sembra stanco come un vecchio" (è penosissima, lo so; giusto per buttare un esempio :-\) sono sulla strada buonina: ho usato parole riconoscibili in un contesto diverso, attribuendo agli oggetti e al tempo il mio stato d'animo.
Io non so se ho dato un contributo utile, se ho detto cose fuori tema...come non detto! ;D
Il tuo intervento è senz'altro interessante e sottolinea alcuni utili concetti. Però riguardo all'affermazione surriportata ho delle riserve. Anche se questa tecnica "estraniante" (star wars insegna!) può essere usata con profitto non è imperativa per comporre poesie anche eccelse. Se si applicasse in modo rigoroso questo tuo criterio un numero sterminato di famosissimi poeti non sarebbero da ritenere più tali in quanto il loro linguaggio, pur ricercato, non usa mai o quasi mai questi espedienti.
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Sì, certo, infatti io ho voluto fare un esempio dei tanti.Tuttavia, anche i poeti di cui tu parli "connotano" le parole in un senso diverso da quello comunemente usato. In poesia tutto, anche la descrizione più realistica, indica "altri" e questo si ottiene proprio con la mancanza del realismo. Prendiamo "La pioggia nel pineto": è una descrizione iperrealistica con tanto di linguaggio aulico e molto preciso di un acquazzone ma NON è una descrizione bensì poesia.
Come la spieghiamo? ;)
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... ma NON è una descrizione bensì poesia.
Come la spieghiamo? ;)
Riporto, per brevità, solo un frammento della poesia, e lo riporto pure "in prosa":<Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti>. Più descrizione di così! Un naturalista non avrebbe saputo fare di meglio. Dov'è la poesia? Ma proprio nell'accurata descrizione di un ambiente (una pineta) e di un evento in esso (la pioggia) densi di suggestioni per chiunque.
L'effetto viene esaltato dalla raffinata scelta delle parole, dalla loro disposizione, da certe aggettivazioni che proiettano particolari emozioni, dalle cadenze interne, da qualche metafora.
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Scusami :), forse mi spiego male, ci riprovo. Non è possibile decontestualizzare dei versi; la poesia va letta nella sua totalità. E' chiaro che ci sono dei passaggi descrittivi ( a parte che poi, quell'insistere sulla descrizione nei suoi minuti particolari, con onomatopee e tutto,e quell'"ascolta" iniziale già trasportano in un'altra dimensione che non è la prosa) ma la poesia - nella sua compiutezza - non è una descrizione. Il famoso senso panico della natura, la presenza femminile con un nome classicheggiante, il compiacimento del poeta e la trasformazione finale in esseri fitomorfi decretano che "La pioggia nel pineto" è poesia, a prescindere dai singoli versi descrittivi. Non sto dicendo che non siano le cadenze, la posizione, le metafore a fare poesia; ma ci vuole anche un contesto "interiore" che faccia in modo da dire qualcosa di reale e nello stesso tempo qualcosa di completamente irreale ma condivisibile da molti.
Esempio di Ungaretti:
Variazioni sul nulla
Quel nonnulla di sabbia che trascorre
Dalla clessidra muto e va posandosi,
E, fugaci, le impronte sul carnato,
Sul carnato che muore d'una nube...
Poi mano che rovescia la clessidra,
Il ritorno per muoversi, di sabbia,
Il farsi argentea tacito di nube
Ai primi brevi lividi dell'alba...
La mano in ombra la clessidra volse
E, di sabbia, il nonnulla che trascorre
Silente, è unica cosa che ormai s'oda
E, essendo udita, in buio non scompaia.
Noi possiamo anche dire che è la descrizione di come la sabbia fa su e giù nella clessidra quando noi la giriamo e del colore dell'alba, ecc. Ma tutti avvertono che si tratta di una connotazione diversa delle parole, il poeta vuole parlarci del tempo e della sua fugacità, del poco che ci resta concretamente e via dicendo.
O no? :)
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il poeta vuole parlarci del tempo e della sua fugacità, del poco che ci resta concretamente e via dicendo.
O no? :)
Certo, si chiama metafora, no? Comunque è evidente che tra Ungaretti e D'Annunzio ci sono profonde differenze. In D'Annunzio, almeno ne La pioggia nel pineto, l'elemento descrittivo, la fisicità delle sensazioni, sono gli elementi preponderanti, anche se non gli unici, inoltre il linguaggio è abbastanza comprensibile. La poesia di Ungaretti è tutta una metafora, in più il suo linguaggio è abbastanza oscuro. Il significato generale è quello che tu hai detto, ma il significato preciso di certe espressioni e di certe parole non è così immediato, bisogna studiarsela e magari ricorrere a qualche esperto commentatore. Entrambe però sono poesia. Non c'è una ricetta unica.
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Riporto, per brevità, solo un frammento della poesia, e lo riporto pure "in prosa":<Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti>. Più descrizione di così! Un naturalista non avrebbe saputo fare di meglio. Dov'è la poesia? Ma proprio nell'accurata descrizione di un ambiente (una pineta) e di un evento in esso (la pioggia) densi di suggestioni per chiunque.
L'effetto viene esaltato dalla raffinata scelta delle parole, dalla loro disposizione, da certe aggettivazioni che proiettano particolari emozioni, dalle cadenze interne, da qualche metafora.
:D La pioggia si può udire. Le nuvole sono rade. Le tamerici si bagnano, sono ricoperte di sale e stavano per seccare. I pini hanno la corteccia a scaglie, per la siccità e le loro foglie sono a forma di ago. La pioggia arriva anche nel sottobosco sui mirti, bagna anche le ginestre ed i loro fiori nel centro dei cespugli formati dai rami, i ginepri sono molto folti e pieni di bacche dal profumo caratteristico.
Vado bene come naturalista? ;D Le nuvole non mi passeggiano nel cervello dispargendosi, semmai potrebbe esserci il vento. Le tamerici si, hanno sete. I pini non si mettono a pungere i malcapitati, semplicemente se non gli rompete le scatole, le foglie rimangono lì, nessuna ginestra dice a qualsiasi fiore, "prego, accomodati" ( o se preferite "raggruppiamo un pochino questi fiori") ed in tutto questo il ginepro non si sognerebbe mai che un qualche essere umano possa sentirsi coccolato dal sentire l'odore di una sua bacca, bhe, la grappa è buona, anche in cucina i piatti assumono un altro sapore, ma questa è un'altra storia ed il ginepro neanche lo sa, non sa perché quel deficente che passa gli rompe sempre "le bacche"! No, non credo sia solo una descrizione naturalistica, vi è tutta una storia narrata con essa, vi è tutto un vivere personale dello sbevazzatore di grappa, ad esempio! A me il ginepro non piace! Ma devo dire che la bacca posso pure immaginarla come un rovo di more: buone!(per me), e non cambierebbe il modo di leggerne il sentimento, tanto piove pure sui rovi! Ecco che non importa se mi piace o no il ginepro, importa che piove e che mi disseto e coccolo leggendo. Nessun veleno, solo bontà: è poesia.
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Certo, si chiama metafora, no? Comunque è evidente che tra Ungaretti e D'Annunzio ci sono profonde differenze. In D'Annunzio, almeno ne La pioggia nel pineto, l'elemento descrittivo, la fisicità delle sensazioni, sono gli elementi preponderanti, anche se non gli unici, inoltre il linguaggio è abbastanza comprensibile. La poesia di Ungaretti è tutta una metafora, in più il suo linguaggio è abbastanza oscuro. Il significato generale è quello che tu hai detto, ma il significato preciso di certe espressioni e di certe parole non è così immediato, bisogna studiarsela e magari ricorrere a qualche esperto commentatore. Entrambe però sono poesia. Non c'è una ricetta unica.
Certo, si chiama metafora, no? Comunque è evidente che tra Ungaretti e D'Annunzio ci sono profonde differenze. In D'Annunzio, almeno ne La pioggia nel pineto, l'elemento descrittivo, la fisicità delle sensazioni, sono gli elementi preponderanti, anche se non gli unici, inoltre il linguaggio è abbastanza comprensibile. La poesia di Ungaretti è tutta una metafora, in più il suo linguaggio è abbastanza oscuro. Il significato generale è quello che tu hai detto, ma il significato preciso di certe espressioni e di certe parole non è così immediato, bisogna studiarsela e magari ricorrere a qualche esperto commentatore. Entrambe però sono poesia. Non c'è una ricetta unica.
Mi rendo conto che non sono stata chiara ma non fa niente, qui il fine è solo di scambiare opinioni. Solo una cosa: non lasciarti ingannare - quando leggi una poesia - dal fatto che ci sia un chiaro "elemento descrittivo" e la "fisicità dellle sensazioni" all'ennesima potenza; anche in tal caso il poeta vuole dire qualcosa che sta al di sotto della "realtà".
P. S. Nel testo di Ung. mi azzarderei più che altro a parlare di allegoria, non metafora. Ciao! :)
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Mi rendo conto che non sono stata chiara ma non fa niente, qui il fine è solo di scambiare opinioni. Solo una cosa: non lasciarti ingannare - quando leggi una poesia - dal fatto che ci sia un chiaro "elemento descrittivo" e la "fisicità dellle sensazioni" all'ennesima potenza; anche in tal caso il poeta vuole dire qualcosa che sta al di sotto della "realtà".
Sei stata chiarissima invece, te l'assicuro. Anch'io sono convinto che ogni descrizione, anche la più scientifica, sia inevitabilmente intrisa di elementi emozionali. Siamo esseri umani, questa è una nostra caratteristica! Ciò su cui divergiamo, credo, è che io ho un concetto di poesia più elastico mentre tu tendi a delimitarlo entro certi canoni.
P. S. Nel testo di Ung. mi azzarderei più che altro a parlare di allegoria, non metafora. Ciao! :)
Hai ragione, d'altronde l'allegoria è stata anche definita una metafora continuata.
:D La pioggia si può udire. Le nuvole sono rade. Le tamerici si bagnano, sono ricoperte di sale e stavano per seccare. I pini hanno la corteccia a scaglie, per la siccità e le loro foglie sono a forma di ago. La pioggia arriva anche nel sottobosco sui mirti, bagna anche le ginestre ed i loro fiori nel centro dei cespugli formati dai rami, i ginepri sono molto folti e pieni di bacche dal profumo caratteristico.
Vado bene come naturalista?
Oh, ma anche questa è poesia! Ed è poesia tutto il resto che hai scritto. Io la pubblicherei come poesia sul sito, e non scherzo, complimenti! Mi riconferma nella mia idea "elastica" di poesia.
Nel particolare, io sono quel deficiente che coglie sempre le bacche del primo ginepro che incontro perché mi piace il loro profumo, ma non le assaggerei in quanto gira voce che siano velenosissime, molto più del linguaggio.
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Oh, ma anche questa è poesia! Ed è poesia tutto il resto che hai scritto. Io la pubblicherei come poesia sul sito, e non scherzo, complimenti! Mi riconferma nella mia idea "elastica" di poesia.
Nel particolare, io sono quel deficiente che coglie sempre le bacche del primo ginepro che incontro perché mi piace il loro profumo, ma non le assaggerei in quanto gira voce che siano velenosissime, molto più del linguaggio.
:D :D :D :D io penso alle more, ma tu... a quale altro arbusto stai pensando?
http://www.cucinare.meglio.it/bacche_di_ginepro.html
Lungi da me il definire il mio scritto scientifico una poesia! ;D ma come osa mettere in dubbio la scientificità provata con metodi analitici su teorie dimostrate del vedere statistico per cui ad ogni affermazione corrisponde una percentuale di bugia? é tutto provato scientificamente, lo giuro! Come la analizzo io la pioggia... se non ci crede me la hanno pure pubblicata su sciencenews n 0202002020202!
Se lo compri nelle migliori librerie universitarie, sempre che lo trovi: sono andate a ruba le prime cinque edizioni!
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:D :D :D :D io penso alle more, ma tu... a quale altro arbusto stai pensando?
http://www.cucinare.meglio.it/bacche_di_ginepro.html
Lungi da me il definire il mio scritto scientifico una poesia! ;D ma come osa mettere in dubbio la scientificità provata con metodi analitici su teorie dimostrate del vedere statistico per cui ad ogni affermazione corrisponde una percentuale di bugia? é tutto provato scientificamente, lo giuro! Come la analizzo io la pioggia... se non ci crede me la hanno pure pubblicata su sciencenews n 0202002020202!
Se lo compri nelle migliori librerie universitarie, sempre che lo trovi: sono andate a ruba le prime cinque edizioni!
Davvero simpatica! Sulle bacche di ginepro pare che tu abbia ragione secondo ciò che leggo su internet, però io l'ho sentito dire da più di uno che sono velenose, certo bisogna vedere che s'intende. Anche il pejote, la marijuana, sono velenosi ma c'è chi li usa. L'unica controindicazione che ho trovato per le bacche è che possono provocare "danni renali in caso di utilizzo prolungato o sovradosato", ma cos'è che non fa male ai reni!
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:D Anche il prezzemolo è tossico ma in piccole dosi si usa, almeno questo mi sembra di aver letto. forse la stessa cosa del ginepro, ma... va bho, faremo un altro post sulla cucina, Interessante! ahhahh!