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Nato a Palermo, 55 anni fa, segue gli studi tecnici, non per effettiva scelta, diplomandosi in elettrotecnica nel 1985. Nel medesimo anno, però, tormentato dalla ricerca del senso della vita, decide di seguire la strada del poverello di Assisi, e quindi intraprende la lunga strada degli studi filosofici-teologici. Sin da adolescente affida a un quaderno-agenda gioie, amori e dolori che rimarranno in quell’agenda, però, sino a pochi anni fa. Francesco non pensa minimamente di far leggere ciò che scrive a qualcuno. È come se volesse custodire le sue emozioni e tenerle al riparo da ogni ‘contagio’. Solo poco più di tre anni fa, per caso, un amica scopre la passione di Francesco e lo incita a far leggere ad altri il contenuto di quel ‘diario’.
Il suo pesante senso di inadeguatezza a questo mondo, che lo accompagna dall’adolescenza, viene quindi alla luce.
Recensione di Anna Leto all’antologia “Nero” ed. Tracce nel vento
Nell’apprestarmi a scrivere una critica alle poesie di Francesco mi sono trovata in serie difficoltà. Ogni volta che, infatti, mi apprestavo a scrivere qualcosa su un singola poesia (o un singolo verso) mi accorgevo che qualunque cosa tentassi di dire era non soltanto ridondante ma, addirittura, spoetizzante. Tutto ciò che doveva essere detto Francesco lo ha detto in un modo talmente preciso e poetico che ogni aggiunta, ogni spiegazione l’avrebbe spogliato della sua bellezza. Stanca di gelidi ed infruttuosi tentativi di analisi ho deciso quindi di seguirne semplicemente il volo (e non a caso utilizzo questa parola). L’opera di Francesco Romano è, infatti, una veduta a volo d’uccello sul vasto panorama delle inquietudini umane, sorvolandone le alte vette ed i vertiginosi abissi, tra templi e fortezze, attraverso paradisi ed inferni.
Quel costante altalenare tra sentimenti contraddittori che ci riporta alla memoria il Petrarca del “Pace non trovo, et no ò da far guerra” pervade anche la poesia di Francesco dal
“rimescolar le pene e i giorni lieti
e possederti ancora se tu m’avessi” (Amor - ti ho conosciuto -)
al verso
“Ama e torna indietro”
che, posto giusto all’inizio della poesia ‘Un mondo nuovo (se lo vorrai)’, è quasi uno schiaffo più che un invito;
da “Un letto straniero che diventa casa” (Monili e contorni)
a quel “l’impeto si stupì della mia quiete atroce” (Tragodìa)
in cui le ultime due parole – quasi un ossimoro – turbano ancor di più.
Il lettore si trova quindi in balia di questo vagabondare senza mai una sosta in un ineluttabile turbinio di contrasti. Mentre, però, in tutti noi il contrasto è sinonimo di confusione, per Francesco no, per lui il contrasto è un intero mondo sotteso tra due fuochi in una trepidante attesa, una aspirazione, una tensione verso qualcosa di inarrivabile: forse, finalmente, quell’appagante senso di pace di
“… giungere su placide acque limpide
e smisi di piangere per ricevere l’amore
ora, me ne sento degno” (In un sogno (che vivo))
Ed è proprio l’amore, come sempre, il motore ed il fine ultimo di ogni cosa: del dolore che soffoca e strazia, del desiderio inebriante dell’eros, della nostalgia dei ricordi come del rimpianto di ciò che si è perduto, perfino della rabbia e del disprezzo che ringhiano il proprio furore; un amore che protegge e che devasta, innalza e schianta, imprigiona e schiude.
Ci si perde, così, tra immagini oniriche di sogni psichedelici, pur tenendo sempre presente nella mente e nel cuore questo amore trasformista e trasformante.
Forse per questo, giungendo in fondo all’ultimo verso dell’ultima poesia, mentre Francesco cerca quell’oasi
“… tra le dune infuocate
che mi sciolga ancora tra due braccia” (Kalbim)
io non ho potuto fare a meno di sentire risuonare
nella mia mente le parole di Sant’Agostino: Ama e fà ciò che vuoi |
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