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"La notte, la penombra, le mura lattee ed irte di castelli a precipizio su distese atemporali,
di sbiadite, caliginose geografie. I cavalieri erranti, le belve, il sangue e le
regine. Questa la scenografia, forse ritrita, ma certamente corollario a contenuti di
spessore più cospicuo. L’atmosfera gotica delle poesie di Cristina Luna, per altro
ammorbidita e priva di connotazioni oscure ed inquietanti, non è da intendersi come
artifizio letterario od adesione ad una ormai abusata corrente di scrittura che
rispolvera filoni settecenteschi, bensì come pretesto in cui ambientare ben più intimi
e profondi sentimenti che, trascendendo il microcosmo personale, sfociano nel
macrocosmo dell’universalità. I temi portanti dell’amore, della speranza e della
passione ( che include, nella sua più completa accezione, il desiderio di riscatto,
redenzione ed affrancamento dalla dimensione terrena e quotidiana ) non sono
analizzati ed ancor meno raccontati, ma mostrati attraverso la lente vitrea ed acquosa
di un mondo onirico e femmineo e, per tanto, assoluto. Il culto di Diana-Luna, la
celtica An Morrigan ( Grande Madre del pantheon pagano ), il Femminino Sacro –
sebbene mai una volta menzionati dall’autrice nei suoi versi – traspaiono con
evidenza ed assumono un significato di primaria importanza, assurgendo al ruolo di
protagonisti di una poetica che, distante da ogni rivendicazione di carattere sessuale,
colloca la femminilità nella sua giusta ed elevata dimensione umana di donna,
generatrice di vita e guerriera. Dimensione che di letterario, essendo quotidiana e
assai concreta, forse ha poco, ma per questo ancor più degna di sacralità.
È, quella di Cristina Luna, poesia intimista, a tratti ermetica, ma di scorrevole lettura,
compatta nella sua logica urlante di dolore sordo e contenuto, mai denudato
oscenamente ma, al contrario, rivestito di una delicata patina di speranza e fiera,
animalesca dignità. Le metafore, solo apparentemente gelide e taglienti, si fondono
sinuosamente con la furente passionalità dei versi smorzandone la foga, senza per
questo tacitarla; simili a ceneri che coprono le braci ardenti, soltanto ne leniscono
l’eccesso di calore e il risultato è di sommesso maremoto emozionale. La scelta dei
vocaboli, gli elementi naturali, il reiterato uso dei colori ( il rosso, il nero ) a volte solo
suggeriti ( il sangue, il fuoco, la vendetta, l’ombra, il corvo ), immortalano vissuti
tormentati che potrebbero sfociare in esplosioni distruttive, epiloghi pantoclastici, ma
che invece si risolvono in riscatto sublimato (Scarpe rosse, Vampiri, Bondage, Spine ),
tenere gemme di speranza (Torri oscure, Rumori, Angeli ), fotogrammi di dinamica
passione (Rouge, Maree, Ombre ). È infatti – la dinamicità – notevole dote di
quest’autrice, che non si limita a mettere in mostra beanti ferite dell’anima, non
percorre passerelle indossando corone di spine, ma soltanto le annota per poi,
repentina, forgiarne il rimedio e donarlo al lettore in un’eucaristia di speranza. È la
stessa dinamicità di un germoglio immaturo che ha in se infiorescenze future ( Torri
oscure ), che muta nostalgica notte in spettacolo del firmamento ( Rumori ), che
trasforma la rabbia in proposito di ricostruzione ( Bondage ) e consola con l’eternità di
un cammino ( Vampiri ), spronando a riprendere il volo ( Angeli ). È la forza creatrice
e ferina di chi non si arresta di fronte al dolore e – cosciente che tutto fluisce – non si
nega al naufragio né si esime dal prenderne atto, ma nemmeno si arrende, e continua
– demiurgo fecondo – a creare bellezza in un parto infinito.
Paolo Emilio Pilone |
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